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  Volo Viaggio nella Storia

  

1846, di Niccolò Tommaseo

A R Q U A’

Là dove l’acque spumavano, una scossa di fiamma sotterranea fa balzar le montagne; e rimangono le conchiglie fra le alte rupi: e da’ vulcani novelli scorre la lava nel mare; le isole più e più si dilatano e si congiungono alla terra lontana; i massi ignudi si vestono di museo, di macchia, di grande foresta. Similmente dall’anima agitata le passioni prorompono; e la rovinosa forza loro è pur tuttavia creatrice, che porta in alto il vero latente: e poi, freddato il primo impeto, le rovine, per benefizio del tempo e per la fatica dell’uomo, s’ingentiliscono di coltura fruttuosa. Per simil modo altresì, dal dolore e dall’amore violento si generano a poco a poco i grandi concetti e le imagini belle; quasi ripide alture seminate di fiori, quasi prospetti da’ quali lo sguardo domina gran tratto di cielo, e vagheggia tra ’l verde il raggio d’oro, e s’insinua tra valli amene, guidato dalla lucida striscia dell’acque correnti.

Sui colli Euganei non a caso vennero a riposare le stanche ossa del Fiorentino che amò di doloroso amore Laura e l’Italia. Nulla è a caso nel mondo: ma nella vita degli uomini singolari appariscono in singolar modo distinte le ragioni e gli effetti delle vicende che paiono essere abbandonate alla cieca fortuna. Nella regione Euganea memorie diverse di diverse età, da Fetonte al Foscolo, e da Antenore a Napoleone, dovevano lasciare vestigi. Padova e Roma e Firenze erano, secondo la favola, colonie di Troia: gli Euganei e gli Etruschi eran forse davvero il medesimo sangue. Nelle medesime mura dovevano a breve intervallo di tempo trovarsi due esuli fiorentini del cui verso l’Italia più s’onora: Dante, sospirando amaramente alla patria perduta; il Petrarca freddamente gl’inviti di lei rifiutando.

Certo che in tutta Toscana non facilmente potevasi trovare ricetto più ameno d’Arquà. Ugo Foscolo che in un de’ Saggi intorno al Petrarca descrive sì vivamente Valchiusa, nelle lettere di Jacopo Ortis non dipinge la bellezza dei luoghi sì che il pensiero li riconosca, e salga e scenda per essi. Non vedi i poggi, ma l’aura ne senti. E in que’ tocchi stessi che son più rettorici, è notabile, massimamente in giovane, la parsimonia, pregio ignoto agli abbaiatorelli ammiratori del Foscolo, e che fino i più comuni concetti fa parer singolari. Il vero si è che, tranne l’unico Dante, i poeti nella rappresentazione de’ luoghi, assai sovente tralasciano le particolarità minute e più proprie; e colgono que’ punti di bellezza che sono comuni a numero grande d’oggetti: ma li scelgono tali che il comune tenga dell’universale anziché del triviale, del semplice anziché dell’abbietto. In Dante la forma universale conserva insieme la fedeltà del ritratto: e tanto più mirabile è l’efficacia del suo dipingere, che poche pennellate gli bastano, o pure una sola, a far balzare alla mente l’imagine intera. Laddove nello Scott ed in altri moderni (senz’eccettuare il sommo nostro Manzoni), la cura del particolareggiare disperde, anziché raccogliere l’attenzion de’ leggenti; e per aggiungere chiarezza, scema parecchie volte evidenza.

Non è parola che valga a rendere le tinte con sì delicata e sì ricca varietà digradanti, dell’azzurro e del verde, il color delle nubi e la forma de’ colli, che o soli o appoggiati l’uno all’altro fraternamente, s’abbelliscono con la mutua bellezza; le rapide chine, i dolci declivii; le cime o salenti quasi gradini d’altare magnífico, o ratto levantisi come un pensiero ispirato; i grandi alberi che da lontano appaiono come macchie, da vicino ondeggiano come mare fremente per vento; la pianura che lieta per breve spazio si distende come viandante che posa per ripigliare la via, e le vallette rimote che paiono, quasi un angusto sentiero, correre sinuose tra i monti.

La casa del Petrarca volge le spalle a tramontana: ha da mezzogiorno un prospetto assai ampio di piano leggermente ondeggiante, con di fronte un colle non alto, che solo s’innalza, e par che renda l’imagine della Lirica perarchesca, solinga e gentilmente pensosa. Laddove l’epopea dell’Allighieri è catena di montagne, l’una sull’altra sorgenti, con ghiacci e verde, nebbia e sereno, ruscelli e torrenti, fiori e foresta; ardue cime e caverne cupamente echeggianti. Da manca a levante, altre case tolgono la vista de’ colli, che forse un tempo era libera: e certo quelli d’allora erano men poveri e meno ineleganti edifizi; dacché tuttavia ci rimangono frammenti di stile archiacuto, siccome altrove pe’ colli rincontransi tuttavia macerie e lapidi romane. Da ponente, a diritta, i poggi sono più presso alla casa, e la rallegrano delle lor forme belle: a ponente è l’orto, che avrà allora avuto certamente un più vago disordine che i giardini moderni, e altre piante che i giuggioli e i fichi d’adesso. A ponente era lo stanzino dello studio, dove il vecchio onorando, inchinando il capo o a preghiera o a meditazione non dissimile dalla preghiera, morì. Grato all’anime meste l’aspetto del sol cadente: grata quell’ora di sereno e stanco riposo, ch’è come augurio di morte placida, consolata da luminose speranze.

In queste stanze, digiunando sovente a pane ed acqua, vigilando sempre dalla mezza notte, limando con isquisita cura i suoi versi, e meditando la morte, egli visse quattr’anni; se non che a mal suo grado talvolta ne lo chiamavano a Padova od a Venezia le faccende de’ suoi protettori ed amici. A Venezia già nel 1363 gli erano passati tre mesi della state in compagnia d’un amico, povero, ma illustre assai più de’ principi protettori; di quel Boccaccia la cui novella egli vecchio e famoso doveva nella solitudine d’Arquà tradurre in latino; quel Boccaccia al qual egli nel testamento lasciò da comprarsi una zimarra pel verno. E nella Venezia del trecento, nella qual tuttavia sobbollivano de’ popolani spiriti antichi, più mirabile assai di quella che noi vagheggiamo, fitta già d’armate galee gravide del commercio d’Europa, fitta di genti animose, infaticate, fitta di templi e di civili edifizii, ogni giorno sorgenti con semplice e puro disegno (ché i Longhena e i Benoni erano lontani ancora); nella Venezia del trecento passeggiava il Petrarca, ripensando forse alla Francia, e a Parigi trent’anni fa visitata, il cui sudiciume doveva, come a lui, far uggia all’Alfieri quattrocento venti anni dopo.

Alla parete forse di questa piccola stanza di fronte ai poggi, a ponente era appesa l’imagine della vergine, egregia dipintura di Giotto, la quale il Petrarca morendo lasciò, dono da poeta e più che da principe, al signor di Carrara. A quella immagine riguardando - (oh perché non l’abbiamo noi? perché non possiamo affisar gli occhi in quella bellezza dolcemente austera, nella quale s’affisarono commossi gli occhi di Francesco Petrarca? E la pietà degli sguardi del vecchio ritornerebbe a noi quasi riflessa dalla tavola cara) - a quella immagine riguardando, ed or alla parete, or al monte, or al cielo sereno volgendo il viso, egli avrà ripensati, e come santa preghiera ridetti nell’anima i versi: Vergine bella; dove a ogni stanza è ripetuta con istante fervore e con soavità penetrante il dolce nome di Vergine.

In questa camera accanto dormiva col marito la figliuola che Francesco ebbe d’illecito amore, d’altro amore che quello di Laura. Come potesti, o Fiorentino, adorare la figlia del sindaco d’Avignone, e con tutti i desiderii del cuore e de’ sensi desiderarla, e sospirare di lei in ogni valle e spargere ai quattro venti i sospiri; e in questo mentre abbracciarti a un’altra donna; ed avutone un figlio, riabbracciarleti ancora? Ed averne questa figliuola, che adesso mentre che tu vecchio e pentito, correggi cantando un sonetto in morte di Laura, entra nella tua stanza, e ne’ suoi lineamenti ti porta altri rimorsi e l’imagine d’un’altra bellezza. Oh poeta, tu ch’hai tanto pianto d’amore, hai tu veramente amato mai?

La tavola di Giotto che ornò la casa del Petrarca, è perita; è perita la signoria carrarese: ma consoliamoci: la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arquà non per amore del dolce tuo canto, o poeta, e dell’ameno soggiorno, ma lo visitano perc’altri l’ha visitato; guarderanno più attentamente alla gatta che ai colli, più alla gatta che ai due terzetti dell’Alfieri, che sono de’ meglio temprati e più antichi versi ch’abbia la moderna poesia; più alla gatta che al nome di Giorgio Byron, che senza titolo né altra parola sta confuso fra tanti e dice più d’ogni lode. Tale è il destino della gloria mondana, acciocché gli uomini se ne svoglino: che quando ell’ha vinto la calunnia e l’invidia, quando non le può più dar noia né la rabbia de’ deboli né la paura dei forti, rimangono a perseguitarla l’ammirazione stupida, la lode sguaiata e profanatrice. Accorrevano da molte parti d’Europa e del mondo a vedere la casa di Francesco Petrarca; ed intanto lasciavano che la pioggia e le lucetole entrassero nella sua sepoltura. Ma il conte Carlo Leoni, padovano, assumendo co’ titoli gli obblighi aviti, fece quello che un da Carrara avrebbe fatto potendo, riparò la tomba cadente: né con questo esempio soltanto agl’Italiani raccomandò il proprio nome. Possano le ossa di colui che riposa in mezzo a poveri contadini, di colui che aveva pregiato tanto il contadino di Valchiusa e l’orefice di Bergamo, possano rammentarci com’uno de’ più grandi ingegni d’Italia sia morto; morto nella solitudine, dopo aver conosciuto le dimore di certi grandi; dopo avere, se non lusingate, almen viste senza sdegno le loro crudeli ingiustizie, e accettata da loro l’ospitalità, e ricusatala dalla propria repubblica, e sofferto da essi il nome d’amico.

Sebenico 13 Settembre

Niccolò TOMMASEO

Tommaseo, Niccolò (Sebenico, Dalmazia 1802-Firenze 1874)
Ricordi sui Colli Euganei. Illustrazioni storico-artistiche con appendice… (Padova 1846)

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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Da uno degli albi dei visitatori alla casa del Poeta, che si cominciarono a conservare dal 1788:

"Io Andrea Major in compagnia della signora Annetta Spineda e dei signori Luigi Spineda e Vincenzo Capello ho pagato un tributo alla curiosità ed alla moda venendo a visitare con molta fatica e caldo questo celebre luogo, ed ho provato solo il rincrescimento, che il gran Petrarca non si fosse scelta un'abitazione abbasso del monte, ed in sito più comodo, a beneficio dei suoi ammiratori" - 1799

[Da Fraccaroli Arnaldo, La folla dinanzi a un Poeta, in «La Lettura» 1908]

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