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 Altri tempi

1846, di Pietro SELVATICO

IL MONASTERO DI PRAGLIA (1)

Spuntava sereno il giorno 17 settembre dell’anno 1571 e i primi raggi d’un limpido sole d’autunno, dorate le vette de’ più alti fra gli Euganei, scendevano lenti lenti giù pei greppi e pe’ valloncelli di que’ colli amenissimi a dissiparne le nebbie notturne, finché raccolti in fasci più luminosi schiaravano compiutamente un bianco edífizio che sorgeva severo, e pur modesto, sopra robusto basamento bugnato. Era la chiesa di Praglia che architettata, per quanto dicono le carte del monastero, nel 490 con disegno di Tullio Lombardo, mostrava nella semplice sua costruzione come gli architetti d’allora, sebbene non afforzati per anco dalle regole vitruviane, (2) sapessero dar evidente significanza alle lor murature, e far che nell’osservatore infondessero idee conformi alla loro destinazione, grande ed a que’ giorni non negletto scopo dell’arte. Un’ampia e nobile gradinata guida ad un vasto ripiano, dopo il quale s’alza pulitamente dignitosa la chiesa, con tale una schietta semplicità nell’esterna disposizione da essere, come la faccia dell’onest’uomo, attestazione di quanto si chiude nell’interno.

Quattro pilastri ionici reggenti un cornicione dividono quel prospetto in tre spazii: maggiore è quello del centro, a cui è confine nell’allo una grande arcata la quale riposandosi sul cornicione, limita colla sua altezza e colla sua larghezza lo spazio interno della nave centrale. I due interpilastri laterali chiudono invece dentro a sé due piccole arcate che accennano alle navi minori. Un muro liscio con queste congiunto indica lo spazio occupato dalle cappelle. Se a codesta facciata si potessero levare quei cartocci che a mo’ di mensola arrovesciata sovrastano ad ogni partimento, e nel centro s’appaiano l’un contro l’altro a formar piramide, sarebbe pure una gentile e leggiadra cosa. Ma que’ ghiribizzi la ingoffaino, le scemano severità; sono come un verso convulso dell’Achillini fra dieci terzine dell’Allighieri.

Più armonico è l’interno a cui si entra per le tre porte della facciata. La pianta è quella delle basiliche a croce latina e va divisa in tre navi spartite da secchi ma non ineleganti pilastri ionici che reggono dieci arcate alle quali corrispondono altrettante cappelle (3). L’ampio coro è fiancheggiato anch’esso da due cappelle: una cupola soprasta a’ quattro grandi archi che formano il centro della croce, e che son sostenuti da quattro colonne ioniche alte come i gran pilastri della facciata, e al paro d’ essi reggenti il cornicione che ricorre per tutta la chiesa e su cui si gira la volta a botte della nave maggiore, del coro e della crociera. Modesta, e pur non triviale semplicità, acconcia a rivelare la umile vita del chiostro, e quella operosa pace in cui vissero sempre i figli di Benedetto.

Il silenzio del luogo e dell’ora, era fatto per addoppiare la soave mestizia di quel sacro ricinto, e l’anima del poeta contemplando nella muta solitudine le volte salutate dal primo raggio del sole, avrebbe lanciati la meditazione sulla imagine della città superna che sofferente e pregante da sì gran numero d’anni, spiega dall’un mare all’altro le incorrotte, sue tende.

A questa elevatezza di pensamenti non giungeva per certo la faccia rubiconda che in quel momento disturbava un po’ prosaicamente il solenne silenzio di quella chiesa: era il buon sagrestano che, mostrando nella frequenza dei sbadigli tracce d’un sonno a contragenio interrotto, con un gran mazzo di chiavi in mano, andava ordinatamente schiudendo porte e finestre. Fatto un giro per tutta la chiesa, quasi per raccertarsi che durante la notte nessun disordine era accaduto, se ne ritornava lento lento nella sua sagrestia; quando giunto a visai del coro, scorse su’ palchi che vi stavano di fresco rizzati un uomo nell’atto di sciaguattare qualche cosa in una mastella circondata da una numerosa famiglia di pentolini, tutti insudiciati da quante possono esser mai le combinazioni delle sostanze coloranti.

- Ohe! Messer Battista (prese a dire il sagrestano dirigendo la parola al nuovo personaggio) come? di già bello e lesto? Se non isbaglio vi siete cacciato sul vostro pulpito un’ora prima del solito.

- Oh! Buon giorno Fra Baldassare (rispose l’altro) vedete son cascato dal letto un po’ più presto dell’ordinario,perché mi par mill’anni di finire questa Ascensione di Cristo; e voglio oggi se non farla spacciata, almeno tirarla innanzi assai; tanto più che aspetto una certa visita...

- È presto detto, farla spacciata; ma però ve ne manca un bel pezzo ancora sapete. È poi vero che voi non siete uomo da farvi paura di queste frottole, e vi par da ridere gettar giù un quadro a figure gigantesche in una settimana. Vada per quel benedetto Messer Luca Longhi ch’è venuto di Ravenna con que’ due quadri là in fondo; e perché s’era guasto non so che pezzetto d’un occhio, nel trasporto, e non avea compiuto non so che moniletto in una testa di donna, ci ha posto cinque giorni ad accomodar, quelle miserie.

- Ma il sig. Luca, vedete, è di quelli dal Purismo, egli studia il gran Rafaello, studia tutti que’ pittori d’un secolo fa, finiti finiti come le miniature che ci vengono di Francia (4) i quali, buona gente, dipingevano una figura all’anno. Ha ragione il sig. Luca, glieli pagano i quadri; ma io sono un povero diavolo che se mi metto su quella strada, muoio di fame in dieci giorni. Poi a dirvela, mi par che si perda a stille l’ingcgno ad accarezzare tanto un’opera. Giù pennellate larghe, grasse; di queste vogliono essere per l’artista, senza star lì lemme lemme a morirci sopra. È vero che qualche volta, lo vedo anch’io, in questa maniera n’escono delle grosse; ma non importa, purché l’effetto generale si colga: e l’effetto c’è, non è vero?

- C’è sicuramente, e meglio forse, mi pare, che ne’ dipinti di que’ cappuccini com’è il sig. Luca: sebbene per dirvela a quattro occhi, Messer Battista (non ve ne abbiate a male sapete) non ci vedo poi una certa necessità, che per cercare quello che voi chiamate l’effetto, v’abbiate poi qualche volta a dimenticare, come per esempio in questa figura del Salvatore, che le coscie son tutte due lunghe uguali, e che abbiate a farci due fianchi che sarebbero buoni per san Cristoforo... scusate, Messer Battista, io parlo da ignorante, e solo perché l’occhop vuol pure la parte sua: ma io già ve lo ripeto, non me ne intendo.

- Avrete forse anche ragione, che già non ci vuole la scienza del’ gran Michelangelo per giudicare di certe bellezze nei quadri; ma io, figliuolo caro, ho bisogno di vivere, e non ho tempo di andar tanto per la cruna dell’ago. Oh! ma io mi perdo in chiacchere ed io voglio finire questa figura prima ch’egli mi capiti.

- E chi è questo egli?

- Non ve l’ho ancor detto? ll sig. Paolo Caliari, che questa mattina deve venire dal vicino Castelnovo, ove dipinse una tavola, a levar dalla cassa un’altra sua tavola allogatagli dall’Abate qui per la chiesa: egli poi desidera di visitar questo monastero che non ha mai veduto.

- Capperi! il sig. Paolo, quel famoso! vado ad avvertirne subito il Padre Abate che vorrà vederlo senza dubbio e gli farà il Cicerone , figurarsi con che gioia; egli che non fa altro se non parlare di quadri, e ci stremerebbe il pranzo a noi tutti, pur per empirvi l’epa, carissimi pittori. E così detto il buon sagrestano partiva con tutta quella maggior fretta che potea essergli consentita dal non breve suo ventre: l’artista intanto si poneva premuroso al lavoro.

Se il lettore mai desiderasse sapere subito chi fosse quest’ultimo, il quale non pareva molto propenso alle ingenue massime de’ quattrocentisti ed alle rafaellesche purezze, sappia ch’egli era uno de’ più valorosi frescanti di que’ giorni, Giovanni Battista Zelotti, uomo allora di 34 anni. - Nato in Verona vi ebbe i primi rudimenti dal Badile; e colà fu condiscepolo a Paolo con cui si legò di salda amicizia. Dicono alcuni che avesse insegnamenti anche da Tiziano, ma nol mostra per nulla la sua maniera, la quale ritrae principalmente del fare di Paolo, e come quella di tutti gli imitatori, rimane al di sotto del suo modello. Bisognoso di pane, tentò guadagnarlo consacrandosi alla pittura a fresco per cui aveva particolare disposizione e quella arrischiata prontezza d’improvvisare che allora cercatasi ne’ pittori specialmente a fresco. In quel tempo l’arte cominciava a non essere già più la voce del popolo e della religione; era divenuta aristocratica, s’era fatta lusso da gran signori, a’ quali premeva d’aver luoghi suntuosi al par di quelli delle città e perciò aveano introdotta la moda di fregiarli tutti con vaste e spesso oscene pitture a fresco che ricordassero i sensuali godimenti velati, o piuttosto svelati dalla lubrica mitologia de’ Greci. Zelotti trovò in sulle prime che mettea conto decorare in questa maniera le ville de’ doviziosi, ma andando innanzi si accorse che bisognava faticar molto per guadagnar la vita a frusto a frusto; imperocché volendosi appunto quelle opere gettate giù in fretta, le si valutavano a norma del tempo adoperatovi, ch’è quanto a dire una miseria. Chiuso il suo nome ne’ villaggi, non poté mai per anni ed anni aver lavoro nelle città. Ma finalmente e colle protezioni e colle preghiere ottenne che alcuni nobili vicentini gli commettessero vaste opere nei ricchi loro palazzi di città. Ma egli a quell’ora era già caduto ne’ vizii degli improvvisatori, tirava via di pratica, quanto più presto il meglio, non istudiava più, né potea più salire a grado eminente se non si distoglieva da quel dannoso sistema. Vedea questi malanni il Caliari, e perciò, sebbene lodasse il buono che v’era ne’ dipinti dello Zelotti, l’incuorava a lasciar i muri per lavorare più riposatamente ad olio, dove avrebbe potuto studiar meglio l’opere sue e conseguir maggior fama. Anche per questo era già troppo tardi; avea contratte le abitudini del fresco né potea più adattarsi alle diligenti ricerche della pittura ad olio, e ne avea anche disimparati i buoni metodi, disgrazia quasi abituale a tutti i frescanti che non hanno l’ingegno di Paolo, di Tiziano o di Rafaello. Tentò per altro lanciarsi a maggior volo, e passato a Venezia per rivedere gli amici, vi fu da Tiziano prescelto a dipingere que’ soffitti della Libreria di san Marco e del Consiglio de’ Dieci che ancora attestano quanto avrebbe potuto, se lo studio e la fortuna gli fossero stati più amici. Non altri lavori trovando dopo quelli a Venezia, tornò ai suoi villaggi a dipingervi, da buon macchinista ch’egli era, un subbisso di pareti, ed affranto dalle fatiche incessanti e dall’umido della calce, morì a 60 anni poveramente.

Nell’anno che indicammo nel principio del nostro racconto, egli stava da un pezzo a Praglia chiamatovi dall’Abate d’allora il padre Placido da Marostica, che forse ne avea ammirato i lavori a Vicenza, e lo stimava opportuno a coprire di quadri d’ogni fatta e d’ogni maniera le vaste pareti della chiesa e del monastero. Lo Zelotti aveva da poco compiute quele che fra breve descriveremo, e stava allora dando termine all’abside della chiesa, ove gli era ingiunto di colorire a fresco l’Ascensione di Nostro Signore ed i quattro Dottori della Chiesa.

Intanto ch’egli si preparava a comporre le tinte, aspettando che un poco si rasciuttasse l’intonaco steso dal muratore, ecco un lontano scalpitìo di cavalli annunciar l’arrìvo del sospirato Caliari. Non appena udì lo Zelotti che la cavalcata facea sosta al piede della scalea, che in due salti traversò la chiesa e discese incontro al suo illustre condiscepolo ed amico; e l’abbracciò con quella giuliva cordialità che si prova nel rivedere un uomo illustre il quale vi onora e vi ama, e con l’amicizia sua vi mette a parte almeno d’un centellino della sua gloria, e vi guadagna un po’ di considerazione dagli altri. - L’insigne Veronese, salito allora in gran fama, e rimunerato largamente dai commettenti viveva agiato, e poteva sfoggiare in ispese. Modesto però sempre, e più bramoso d’avvantaggiare per la famiglia che di menar vita a dovizioso, si contentava di sfogare il lusso negli abiti che portava sempre magnifici, sicché l’avresti preso per uomo di corte a vederlo con quella ricca colonna d’oro rigirata intorno al collo, con quella zimarra tutta fornita di preziose pelli, e co’ borzacchini di velluto che non ismetteva neppure ne’ dì piovosi (5). Lo seguitava un servo e due fra’ suoi discepoli, che allor si dicevano aiuti, perché lavoravano a preparare, abbozzandole, le opere del maestro. Salita Paolo la scala tenendosi a braccio il suo Battista, non appena entrò nella chiesa che si pose ginocchioni dappresso ad un altare, perché religiosissimo essendo, avrebbe stimato colpa non inchinarsi all’imagine di Dio ogni volta che vi si trovava dinnanzi. Finita la breve preghiera e rizzatosi, si volse con faccia giuliva allo Zelotti, e mettendogli una mano sulla spalla:

- Come va, prese a dire, mio buon Battista, sempre qui fra campi a far opere eccellenti sì, ma che non t’allargano rinomanza, perché note a pochissimi. In tal modo si rimangono come selvaggie le più belle fra le tue fatiche (6).

- Ma se non faccio così, a casa non bolle la pentola, Messere.

- Oh! Credi a me, camperesti lo stesso e meglio se ti staccassi una volta da questi disgraziati muri, per darti a qualche lavoro condotto ad olio in qualche publico luogo d’una grande città, ove potesse esser conosciuto meglio il tuo molto valore: là certo ti verrebbero più proficue le occasioni, né faticheresti per piccola mercede come un facchino. Ma già tutto questo è un parlare a’ sordi, tu non mi badi, ed è pur meglio che io guardi tranquillamente all’opere che qui hai condotte giacché ho la buona intenzione, sai., di farti un pò l’uomo addosso.

- Il cielo ve ne rimeriti, che mi sarà gran lezione codesta per regolarmi un’altra volta.

- Eh: amico, tu mi renderai la pariglia, vendicandoti sopra di me, quando andremo a guardar la mia pala che deve essere già arrivata.

Ciò detto s’avviarono verso il coro ove Battista avea finito levare alcune assi del palco, affinché il gran Veronese potesse osservare a tutt’agio, così quello che v’era da poco compiuto, come il catino che stava terminandosi allora.

Dopo aver guardato quelle quattro gigantesche mezze figure dei Dottori, che due per parte del coro vi avea lo Zelotti magistralmente dipinte, Paolo esclamò: va là mio buon Battista, che sei pure il gran praticone; chi sa meglio di te adesso dar vigore ed intonazione ad un fresco? Peccato che talvolta tu non ti voglia curare di scegliere tipi un pò più nobili pe’ tuoi santi. - Vedi, a queste bellissime teste nulla mancherebbe se più vi si leggesse il pensiero e la elevatezza della fede: come sarei contento di averli fatti io questi Dottori; che pennello! che bella maniera di modellare!

Tutto gaio di così splendido elogio, Battista invitò l’amico ad alzar gli occhi verso il catino dell’abside ove stava allora dipingendo quella Ascensione di Cristo che non andava gran fatto a versi, come vedemmo, dell’ottimo sagrestano; e per dir vero non andò a versi neppur del Caliari; giacché lodatone il buon colore, ne rimproverò anche un pò acerbettamente il poco studio d’anatomia che discernevasi nel nudo del Cristo e la volgarità degli Apostoli che in tante mezze figure parevano sorgere dal cornicione.

- Voi avete mille ragioni, Messer Paolo; ma son proprio io con quel grasso che guadagno che posso darmi a studii accurati: n’ho di grazia di spacciarle più presto che m’è possibile le mie pitture, sotto pena di morirmi di fame, ed i figliuoli che non son pochi.

Il Caliari, che pur troppo sentiva l’amara giustezza d que’ lamenti, né avea buone ragioni da opporre, si fece allora sotto la cupola e si fermò ad osservarvi di preferenza i quattro Evangelisti che lo Zelotti avea buttati giù nei pennacchi d’essa con quel suo stupendo talento di colore di chiaroscuro.

- Belli davvero e ben dipinti, si fe’ a dire il Caliari, sono proprio degni fratelli a que’ Dottori della Chiesa che facesti nel coro, e che senza dubbio son da tenersi fra i migliori cose che ti uscissero dal pennello.

Nel mentre che l’insigne Veronese lasciava andar libero l’occhio intorno, e l’arrestava tratto tratto or sull’un or sull’altra delle numerose mezze figure di profeti e di santi condotte da Giambattista ne’ scompartimenti della volta, e che or per la più parte stanno imbiancate; quest’ultimo lo tirò dolcemente pel braccio dicendogli:

- Lasciate là, sig. Paolo, non badate a questa sorta di roba che mi tocca fare un tanto la dozzina, e son forzato, pur troppo, a non metterci più pensiero di quello vi ponga il falegname a piallare un’asse. Venite piuttosto a vedere la tavola ad olio del maggior altare che ho finita testé, e che spero non mi sia riuscita a rovescio. Allora lo condusse di nuovo nel coro, dinanzi ad un gran quadrone che stava ricoperto da un lenzuolo, affinché la polvere non vi si attaccasse sopra, così fresco com’era ancora. Lo scoperse Battista ed apparve una vasta composizione figurante la Vergine che ascende al cielo. Al paro della maggior parte de gli uomini, i quali più vani si mostrano di quelle cose che sanno far meno, il povero Zelotti ci mettea tutto il suo amor proprio ne’ dipinti ad olio, né si curava più che tanto delle lodi molte e sincere che gli venivano spesso pe’ suoi freschi. Scoperto dunque quel gran quadrone s’aspettava che il Caliari prorompesse in una salva d’ elogi; quindi con ansia impaziente ne spiava i moti e gli sguardi. Ma con suo grande rammarico s’accorse che rimaneva freddo, e che quel bene che mogio mogio gli usciva di bocca, non partiva proprio dal cuore. - Ma in nome del cielo, con voce accorata soggiunse lo Zelotti, scodellatemi schiettamente quel che ve ne pare; sapete pure che cerco di mettere a profitto gli avvertimenti che vi piace di darmi.

- Quando devo dirtela proprio tonda, replicò il grande artista, mi pento di averti eccitato tante volte alla pittura in olio, perché veggo che non ci sei nato. Di certo questa tua pala è ben disegnata; si vede che l’hai lavorata con amore con paziente ricercatezza ma che vuoi?... in onta a ciò è là fredda, morta, e quello ch’è peggio, disarmonica, perché quel tuo benedetto pennello che a fresco sa far prodigi, ad olio si fa greve, perde ogni trasparenza, tira via alla prima come quel valent’uomo del Tintoretto. Non c’è modo, così non può aversi freschezza nelle mezze tinte, né ricchezza in que’ mezzi toni che procurano a’ dipinti tanta armonia, perché i mezzi toni, credilo a tanti anni d’esperienza, non si possono ottenere alla prima. Vedi qui, con questo tuo metodo che rifugge dalle velature come il diavolo dalla croce, ne uscirono azzurri interi che staccano crudamente co’ rossi, gialli che non trovano scala a passare a’ verdi e per tutto un sordo di tinte che pesa sull’anima e sull’occhio. - (Notate bene, era il Caliari che parlava allora, uno de’ coloristi più insigni che sieno stati, il quale tanto nelle squisitezze della tavolozza poneva le glorie dell’arte, da potersi affermare che il più delle volte pensasse col colore).

Di così giusti ma pur dolorosi rimproveri. tanta sentì acerbezza Battista che quasi gli si ingroppavano le lagrime agli occhi: e Paolo che se ne accorse, ed ebbe rimorso d’essersi lasciato ire un po’ troppo; a fin di medicare un poco quella ferita continuò:

- Pure ti accerta, Battista, non ne viene perciò che questo tuo lavoro non meriti molta considerazione. Ti ripeto, è ben segnato, c’e’ bella espressione nella Vergine, e nella ordinanza generale vedo che tenesti d’occhio il sig. Salviati, ch’è quel franco compositore che tutti sanno.

– Ed in fatti è vero, si scorge in questo dipinto, accurato sì, ma non bello, che lo Zelotti avea tentato di collegare la imitazione del sommo Caliari a quella del manierista che allor menava sì gran romore in Venezia e si chiamava Giuseppe della Porta, a cui davano or il sopranome del maestro or quel della Patria, dicendolo ora Salviati, ora il Garfagnino.

Quando Paolo vide un po’ rabbonacciato Battista, a fine di tornargli il suo solito umor gioviale, gli disse con quel bel garbo ch’era tutto di lui:

- Ora che t’ho strigliato bell’e bene, rendimi il cambio portandoti a rimbrottare i tanti farfalloní in cui sarò caduto nella tavola che io dipiiisi qui per la chiesa. Ascolta però prima; non già colla mira di scusare i miei errori, ma solo per impiccolirli per quanto posso, ti dirò in prevenzione, ch’è cosa gettata giù alla presta, condotta si può dir fra una pennellata e l’altra d’altri lavori grandissimi, e quindi minore di quello sento di poter fare. In mezzo a così fatti discorsi giunsero ove due legnaiuoli stavano levando il coperchio alla cassa d’un quadro, in cui Paolo avea dipinto il martirio de’ SS. Primo e Feliciano. Era infatti come tutte l’opere del Caliari, vaghissima nel colore, pennelleggiata da gran maestro, stupenda per contrasti armonici di tinte or ricche or leggere, or calde or fredde, sempre con grande accortezza opposte fra loro; ma la composizione mostravasi affastellata, comune, non isvolta, a dir breve con paziente pensiero: poco e male apparivano i protagonisti; nel manigoldo vedeasi una volgarità disgustosa: in somma non era malignità dirla una delle più scadenti opere del Caliari. - E la freddezza con cui si fece a lodarla lo stesso Zelotti, tuttoché fosse fra ì più grandi ammiratori di Paolo, confermarono quest’ultimo di non aver fatto un capo-lavoro; ma come uomo che non avea vanità di sorta. né potea risentir più né vantaggio né danno da piccoli trionfi come da piccole cadute, non se ne impensierì punto per così gelide lodi; anzi sorridendo si tolse di là, convinto di non avere con quel lavoro aggiunto neppure una meschina foglia agli allori che gli cingevano la fronte.

Quindi ilare come il solito, prese a dire in tuono di benevola celia: Ora che, mio buon Battista, ci siamo rinfacciati l’un l’altro le nostre magagne artistiche, non ti incresca farmi da Cicerone su’ varii oggetti d’arte che veggonsi nella chiesa, e prima d’ogni cosa portiamoci ad osservare e ad ammirare la tavola che so esserci qui del nostro buon maestro il Badile, ed a me poi zio amorosissimo.

- Eccola qui dietro a noi, soggiunse lo Zelotti, ed additava la tavola del braccio sinistro della crociera ove il predetto Badile avea figurata in una gran tavola d’altare, la Vergine ed il Bambino in cielo, ed al piano san Giovanni Battista, santa Scolastica, ed altri santi (7). È un dipinto che per certo non può guadagnarsi le simpatie di quelli che cercano il bel colore, perché sbiadato, monotono, e pe’ metodi adoperati così riassorbito nella imprimitura, da essere poco più che un chiaroscuro colorito; ma a compenso vi spicca un savio disegno, ed un affetto rarissimo a rinvenirsi ne’ pittori di quell’epoca, specialmente dello Stato Veneto. Nella santa Scolastica in particolare si indovina la pia aspirazione in che era immerso di continuo il pensiero della suora di Benedetto; ed è poi bellissima per verità e vivacità la figurina infantile che scorgesi sul dinanzi del quadro, e guarda allo spettatore in modo, che par proprio persona viva. Ignorasi di chi fosse discepolo il Badile; ma quando mi faccio a considerare. questo dipinto, sospetto ch’egli si avesse insegnamenti od almeno consigli da quel Paolo Cavazzola di Verona, morto in sì giovane età, il quale cos’ castigate ebbe le massime dell’arte che, se avesse vissuto, avrebbe di certo tardata l’invasione del naturalismo e del culto prosaico alla forma.

Il Caliari, tuttoché i precipui suoi studii ponesse nel colore e nella verità materiale, e se ne facesse di essa un idolo tanto maggiore quanto più vedeva ammirate l’opere sue, pure troppo si conosceva dell’arte, e l’amava ove ella si propone d’avvivare il sentimento anziché il senso, per non iscorgere le predette doti nella tela del suo maestro: la considerò quindi lungamente e se ne staccò pensoso, siccome uomo che quasi sentisse ciò che mancava al suo ingegno.

I due amici si fermarono da poi dinanzi alla cappella vicina, ove stava un’opera recente d’uno fra i due giovanetti che seguitarono in quella gita il Caliari, ì quali allora ben poco solleciti di tener dietro alle riflessioni del maestro, se l’erano svignata fuor della chiesa; e come due poledri scappati di scuderia, s’eran posti a correre su e giù pegli ubertosi broli del monastero, a dare il sacco all’uve squisitissime di que’ luoghi che cominciavano allora a dorarsi e ad arrubinarsi. - Guardando a quest’opera mediocre d’un suo discepolo, fece un pò il viso arcigno il Caliari, e rivolto al compagno disse:

- Vedi qua, Battista, non è mica da credere che il nostro Dario Varotari, avendo buttato giù questo Martirio di Sebastiano come a Dio piace, sia un íngegnuzzo da poco: al contrario, del talento ne ha da vendere; ma vuol darsi a troppe cose e così non avanza nella pittura come dovrebbe: figurati, si applica all’architettura, alle matematiche, fin alle lettere! povero pazzo! alle lettere? bel costrutto che ne caverà! Pure farà molto io spero, perché vede l’arte da elevato punto e l’ama davvero. Ripete sempre, per esempio, (e pensa ciò che dice perché è ottimo figliuolo e costumatissimo) che l’uomo degnamente nato fa ingiuria alla sua condizione applicandosi a trattar cose non tendenti al fine della gloria; che il pittore merita lode e premio ancora operando eccellentemente , potendo cogli esempii da lui rappresentati, incalorire gli animi alla virtù (8).

I due pittori lasciavano inosservato l’altare seguente perché non v’era ancora a que’giorni la misera tavola figurante s. Lorenzo Levita in atto di battezzare lavoro che quel povero Camillo Ballini dipinse nel 1574, siccome attesta la iscrizione Camillus Ballini de Titianis faciebat, nella quale ingiuriò gravemente il Vecellio, lasciando sospettare d’essere derivato da quella scuola insigne. Se avesse Paolo lette quelle parole, avrebbe dato in una buona gridata perché non tollerava di veder offeso in modo alcuno Tiziano, ch’egli riveriva come padre dell’arte (9).

Neppur si fermarono all’altare seguente perché non accoglieva ancora quel Cristo intagliato in legno che or vi si vede, ed è opera di Michele Bertens fiammingo: forse non vi si sarebbero fermati neppur se vi fosse stato, per ragioni buonissime che non importa dire qui.

Ma ben rimasero lungamente dinanzi all’altare penultimo perché v’era fresca allora, e non alterata nelle parti ombrate, una recente tavola di quel Jacopo Robusti detto il Tintoretto, che veniva in quell’epoca sì portato a cielo da alcuni a Venezia, da altri gettato peggio che nella polvere. Uomo però sempre di grande ingegno, e che Paolo rispettava come un emulo, o piuttosto come un rivale pericoloso. Rappresenta quel quadro Maddalena che unge i piedi di Gesù Cristo; e tuttoché sia forse fra i meno ammanierati del maestro veneto, pur duole veder Cristo mancar interamente della dignitosa calma conveniente all’Uomo-Dio, e quegli Apostoli più in attitudine di facchini che di rivelatori della divina parola. La Maddalena poi, sebbene dipinta con calore, con succo, con vera scienza di tavolozza (10), manifesta nell’immodesto abito e nella movenza triviale, di non essere ancora pentita ben de’ suoi falli: concetto degno veramente d’un intrinseco amico dell’Aretino com’era lo stravagantissimo Tintoretto.

Quale sciagura, esclamò il Caliari, affisando questa ammanierata ma pur magistrale tela ma pur magistrale tela, quale sciagura che costui faccia dell’arte un mestiere e lavori a caso e senza disegno, quasi mostrando che la nostra arte è una baia: così distrugge il concetto della professione ed anche le proprie sostanze (11). Mi ricordo che quando fu Messer Giorgio Vasari a Venezia, ed io ero giovanetto allora, ci portammo allo studio del Tintoretto, e tuttoché Messer Giorgio, amasse i pratici e i pittoroni più forse del dovere, vedute l’opere di costui, mi venne dicendo quando uscimmo di là. - Grand’ingegno, Paolino, è questo vostro Robusti, ma stravagante, capriccioso, presto e risoluto, e il più terribile cervello ch’abbia avuto mai la pittura: anzi io credo egli superi la stravaganza stessa con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto. E avea proprio ragione Messer Giorgio, perché costui si piglia così in gioco ogni cosa, che spesso abbandona le bozze come fossero quadri finiti, e invece sono così a fatica sgrossati che si veggono i colpi de’ pennelli fatti dal caso, anziché dal disegno e dal giudizio (12). Allo Zelotti, cui i manieristi sul fare del Tintoretto ispiravano per buone ragioni tutt’altro che collera, doleva un po’ quel discorso invidiosetto alquanto a dir vero, e per questo destramente tentava di sviare la parlantina del Caliari, conducendolo verso l’ultima cappella di quel lato ove stava un’altra tavola di Dario Varotari, non bella sicuramente neppur essa, ma degna almeno di tanta attenzione da sviare il pensiero del gran Veronese. - Rappresentava questa nuova tela di Dario, il Diavolo che in forma di donna si fa a tentar s. Antonio; e il dirla povera di verità e d’espressione , non è certo notare tutte le colpe ch’essa racchiude. La guardò Paolo tra ingrognato e dolente, perché la gli parve anch’essa indegna d’un così bell’ingenno com’era quel suo allievo, e si voltò come volesse torgare al centro della chiesa, quando lo Zelotti gli fè cenno esser meglio guardare a’ dipinti del lato destro, cominciando dall’altare vicino alla porta ove stava uno de’ più bei dipinti di Luca Longhi da Ravenna.

Figurava il cominciar del martirio di s. Giustina con tale un affetto, un sentimento, un’ispirazione specialmente nella figura della santa, ch’era pur forza tributar a quell’opera viva ammirazione, qualunque fosse il principio o le massime che uno seguitasse. Da ogni linea di quella figura traspare una finezza ed eleganza di segno, che per poco non la fanno degna del Sanzio. E tutto il quadro s’accosterebbe a sì gran modello, se fosse men teatrale il manigoldo, più aereo e meglio disegnato l’angelo che scende a dar la palma a Giustina, tolto lo sconcio di quella carrozza da cui esce la pia donzella e le damigelle (13). Paolo sorvolando a codesti nei, le molte bellezze del soave dipinto lungamente contemplò, e volto allo Zelotti:

- Vedi, Battista, quest’uomo è veramente degno di rappresentare i soggetti cristiani, perché più assai che il colore e l’effetto de’ toni, cerca il pensiero raccolto in Dio, e colle squisite diligenze d’una mano dottissima, ritrae quei piccoli moti del volto da’ quali scaturisce espressione. Il cielo avesse dato anche a me opportunità di poter seguitare i principii di questo buon Ravennate, ch’io tante volte non m’adirerei con me stesso di non saper giungere all’idea degli esseri celesti, che pur sento dentro del cuore. Ma noi, mio caro Battista, siamo nel numero de’ buoni operai, e l’età nostra che vuol quadri a migliaia, non ci lascia tempo di giungere a quella squisita eccellenza ch’io credo si domandi in chi dipinge santi ed angeli, e senza cui non puossi indurre gli altri all’ammirazione ed all’affetto (14).

- Oh! quando poi vi va tanto a sangue questa pittura che sarebbe buona, mi pare, per far da pagina a’ libri del coro (rispose mezzo stizzito lo Zelotti) non avete che a far due passi di più, e vedrete un’altra opera del sig. Luca condotta al par delle famose miniature della scuola ponentina che veggonsi a Venezia in quel gran libraccio di Cà Grimani, che si chiama il Breviario (15). Sarà bella la pala che vi accenno di quel sig. Luca, ma viva il cielo che né composizione, né effetto, né contrasti, né colore, non ce n’è bricciola.

- Povero Battista, ti perdono la tua maldicenza, perché non vedesti mai né Firenze né Roma, né potesti conoscere nella cara purezza delle antiche scuole di colà, a quale alto segno sappia giungere il pennello cristiano. Le avessi io vedute più presto quelle serene scuole, che avrei tentato di rifondere la mia maniera troppo mirante a’ soli effetti del colorito: ma allora era già tardi, e l’ingenuità e la modestia, doti all’artista indispensabili, erano in parte sparite dall’animo, sicché non potei disfar l’uomo antìco e solo mi fu dato condurre qualche testa di santo che non mi scontentasse affatto.

Così dicendo era giunto Paolo dinanzi all’altra tavola del Longhi in cui stà la Presentazione al Tempio, composta intieramente secondo quei modi arcaici de’ quattrocentisti che al buon Battista non parevano composizione; e grazie al cielo non l’erano, ma ben eran di meglio, vale a dire, sentimento ed ingenua bellezza. Non saziavasi il Caliari di lodar la figura del Simeone, ch’è in fatti la più ammirabile del quadro, sì pel corretto disegno, sì per quel raggio di fede religiosa che gli balena dal nobile volto.

- Vedi Battista, continuò Paolo, per far di quest’opere bisogna essere uomo dì natura buono, quieto e studioso. E tale mi diceva il sig. Giorgio Vasari, essere veramente questo Longhi ch’egli conobbe a Ravenna. Anzi mi aggiunse che se fosse uscito di patria dove si è stato sempre e stà con la sua famiglia, sarebbe riuscito rarissimo, essendo assiduo, molto diligente e di bel giudizio, perché fa le sue cose con pazienza e studio (16).

- Dicono, soggiunse Battista, ch’eqli abbia una figliuola chiamata Barbara la quale dipinge quanto lui, e pretendesi che in questa Presentazione ella ci lavorasse, e che il buon babbo ci avesse poi posto il proprio nome per dar credito all’opera; né stento a crederlo, disse con malizioso ghigno lo Zelotti, perché mi pare un lavoro tutt’altro che da uomo.

- Baie, baie, Battista: ci vuole un artista. consumato per far de’ quadri di questa fatta; credilo a me.

Paolo, così assorto com’ era nel pensiero di quest’opera e della scuola purissima che seguitava il suo autore, appena degnò d’uno sguardo una tavoletta di Dario Varotari ove stà rappresentato il martirio di s. Stefano; ed un’altra del Campagnola in cui è effigiato s. Niccolò vescovo, entrambe poste ne’ due altari seguenti. Ma sboccati di nuovo nella crociera, si fermò dinanzi alla gran tela figurante Crísto fra gli Apostoli che porge le chiavi a s. Pietro, la quale prospetta precisamente l’altra già accennata del Badile.

- Chi ha dipinto questo quadro, disse il Caliari all’ amico? - Vi piace? soggiunse l’altro - Sì certo, vi sono di molte belle cose. V’è grande e spiccata la composizione, nobili i caratteri delle teste. Solo mi incresce questa figura qui sul dinanzi che non mi ha nulla d’apostolico; ed in generale il colore mi incresce ché mi pare s’avvii un po’ troppo alle imitazioni del sig. Salviati.

- Ebbene: l’autore di questo dipinto son io.

- Tu? mi par proprio di sognare, perché mutasti maniera affatto: però, ora che osservo bene, vi traspare sì la tua bilancia il tuo segno, anche il tocco del tuo pennello; ma nel complesso par di tutt’altri. Quel che più importa è che si mostra bella opera veramente, e sarebbe migliore se non ti fossi fitto in capo d’imitare un artista, abile sì ma troppo amico del decorare com’è il Garfagnino.

Non essendovi ancora in quell’anno la tavola dell’altare a destra del coro, ove Carletto Caliari, debolmente imitando il padre, colorì non so quanti angeli portanti corone e palme in movenze sì sconcie che pare cadano a rovescio dal cielo, Paolo s’avviava ad uscire della chiesa dicendo all’amico: or si potrebbe andar a visitar il monastero, che mi assicurano veramente magnifico.

- Aspettate prima, abbiamo ancora da vedere in sagrestia un altro lavoro del vostro Varotari figurante la Nascita della Vergine (17).

- Oh! non importa, Battista: quest’ oggi Dario m’ha un po’ indisposto colla roba c’ho veduto di lui: forse neppur questa mi garberebbe: meglio imaginarsela.

Non avea l’insigne Veronese ben finito di pronunciare quest’ultime parole, che si sentì abbracciato e salutato cordialmente; si volse e riconobbe il Padre Abate che era allora, come dicemmo, Placido da Marostica uomo ben innanzi nell’erudizione sacra, e che amando l’arte passionatamente, ed ogni sua cura ponendo a decorare di quadri e di abbellimenti il suo Monastero, si credea un po’ in diritto di intendersene di pittura, e di assumere la pomposa veste del mecenate, e dell’amatore.

- Eh lasciate, prese a dire, lasciate ch’io stringa la mano operatrice di tanti prodigii. Voi siete il mago della pittura, sig. Paolo, né per questo si commette sacrilegio a venerarvi; ne sarebbe anzi uno il non inchinarsi dinanzi a voi.

Paolo, quantunque avvezzo da molto tempo a così fatto genere di complimenti, non si mostrò meno riconoscente a questo, che avea sugli altri il pregio d’essere un’aurora lontana de’ concettini del seicento. Siccome poi era uomo avvezzo al vivere del mondo e conosceva gli uomini come suol dirsi al fiuto, così fin dalla prima volta che avea veduto l’Abate nel monastero di s. Giustina di Padova s’era accorto ove stava il debole, e da cortigiano consumato, disse con quella disinvoltura che non s’apprende se non dall’esperienza:

- Veda, Padre, avrei potuto spedir qui la tavola allogatami dalla bontà sua, ma volli seguitarla io stesso, sì per dare un abbraccio al mio Zelotti, sì per visitare uno ad uno i preziosi oggetti con cui Ella va facendo ogni di più decoroso questo insigne monastero.

Il buon Abate tanto gongolò di queste parole, buone ad accrescergli dieci anni di vita, che dimenticò allora affatto, come avrebbe dovuto, se non altro per ricambio di.cortesia, di portarsi a vedere il dipinto inviato dal Caliari, ma solo ruminando in pensiero in qual modo alzar in pregio le cose che dovea mostrare, si prese Paolo sotto il braccio, risoluto d’essergli implacabile Cicerone per tutto il vastissimo monastero. Condusse allora l’insigne ospite ed anche lo Zelotti nel cortile pensile ove non era più costretto, come in chiesa, a smorzare la voce, e poteva raccontare alla distesa la storia dell’illustre cenobio ch’egli immancabilmente narrava a tutti quelli che gli venivano alla mano; e quanto più ragguardevoli, tanto più minutamente informavali: figurarsi se poteva salvarsi il povero Paolo! Ma Paolo che già prevedea il temporale, da quell’uomo destro ch’egli era, seppe in parte salvarsene dicendo:

- Quanto e quanto pagherei sapere tutti i particolari che concernono questo monastero famoso, come sa raccontarli Lei, Padre; ma quest’oggi sono affrettato, non posso fermarmi qui se non pochissimo; perciò la prego di narrarmi e di farmi vedere le cose principali; riserbandomi ad altro giorno di avermi più circostanziata descrizione.

Un po’ fastidito il Padre di dover ridurre ad un magro epilogo una storia a cui, da buon classico, avea saputo dare, a forza d’aiuti rettorici,le più distese amplificazioni, una storia in cui vi aveva cacciato opportunamente, e le arringhe de’ capitani, e le descrizioni delle battaglie co’ fantaccini a destra, i cavalli a sinistra, si fe’ a parlare, ma con voce come rinsaccata e senza enfasi, perché il Caliari con quella industre sua fretta gli avea rincacciato in cuore ogni entusiasmo, quindi ogni sfogo di eloquenza. Era come un academico novellino che dopo aver lavorato un anno in una dissertazione, scorge magro l’uditorio o distratti e, a Dio non piaccia, sonnolenti gli illustri colleghi.

Pure incominciò: avendo molto da dire, sig. Caliari, non mi sarà possibile darvi acconcia idea di così cospicuo luogo con breve discorso: non ostante per non farvi ignorare almeno il più importante vi dirò, che tutto questo tenere coi monti circostanti era detto un tempo Pratalea, da’ numerosi prati che gli sono adiacenti. Alcuni storici raccontano che antichissimamente qui fosse un castello detto Berengario, altri lo chiamano Bellenziano, e narrano fosse alzato da una regina d’Ungheria cacciata dal reame, la quale vorrebbero erroneamente la fondatrice del nostro monastero. Dico erroneamente, perché il vero fondatore fu Maltraverso de Maltraversi conte di Montebello, che lo piantò nel 1080 e lo destinò a’ Monaci di s. Benedetto, dotandolo di ricchissime rendite. Non mi farò a notarvi come e quanto crescesse in potere sino al 1232, perché avete quella benedetta fretta alle spalle; ma troppo mi preme che sappiate come allora l’imperatore di Germania Federico secondo, forse per accomodarla con l’irritato Pontefice, donasse al monastero nuovi feudi e diritti di giurisdizione larghissima, sulle terre soggette. Solo volle quel fiero principe che in segno di sudditanza dovessimo allestire, noi monaci, un uomo armato a cavallo in ogni caso di guerra. Nel 1306 nuovo lustro ci aggiunsero il Podestà e i cittadini di Padova, decretando che ogni cenobita della Congregazione di Praglia fosse ascritto alla cittadinanza padovana. Sempre crescendo in onore ed in ricchezza il monastero nostro, giunse, al 1460, ed allora, tra perché l’antica fabbrica minacciava rovina, tra perché, fatti numerosissimi i monaci, era necessario ampliarla, sotto il reggimento di Giuliano II, settimo Abate, furono gettate le fondamenta del chiostro maggiore che vi prego di venir a vedere prima che procediamo innanzi.- Ciò detto per una porticella li condusse ad un corridoio, e di là ad una loggia che poterono dominare quell’ampio chiostro a due ordini di arcate, costrutto secondo la maniera tedesca come la dicevano a que’ tempi (18). Maravigliò Paolo di que’ ben costrutti e solidi archi, molto lodò la elegantissima cornice ad archetti acuti che corona la seconda logia; né sapea rifarsi dalla sorpresa che nel 1460 continuasse ancora a Venezia e per lo Stato quel modo oltramontano ch’egli credeva, come credono molti anche adesso, avesse fine nel 1430 circa. - Quello stile era per altro, aggiunse l’Abate, sul suo spirare dopo la metà del secolo decimoquinto, perché le porte e le finestre che veggonsi al pianterreno di quel chiostro, e che vennero poste probabilmente nove anni dopo, quando fu compiuta la fabbrica, vestono quel carattere che voi altri a Venezia chiamate lombardo, perché ve lo introdussero que’ bravi scalpellini di Lombardia, a cui noi dobbiamo, come avrete osservato, la nostra chiesa e quel bello e delizioso cortiletto pensile che ora ritorneremo a visitare.

E ben avea ragione il buon Abate d’essere sì largo d’elogi a quel sito, fatto per infondere nell’anima sentimenti di solenne e religiosa tranquillità. Qualche cosa di grande come la tomba, d’infinito come il cielo pare circoli per quelle volte leggere: ed in quel chiuso uniforme, che non sembra lasciar luogo ad uscita, indovini il pensiero del monaco che meditando la morte e l’immortalità allontana in quel ritiro la creta dal secolo, volgendo ad ogn’ora l’appurato spirito verso la bellezza ineffabile di Dio. - Oh! chi è lo scettico che non senta il Cristianesimo nel chiostro cristiano, e nell’anima commossa non trovi aggrandita e sublime quella grande parola la pace nel Signore, che rivela tutta la civiltà presente,l’antica riforma! Più ancora nel chiostro di Praglia in cui la solenne uniformità non è tolta se non dalla vista della chiesa di Dio, e da un campanile del decimoquarto secolo, da cui quando mesti, quando festivi i suoni della campana sii spandono pe’ colli e pe’ piani a glorificare il nome del Signore, a convocar il popolo alla preghiera, a raccogliere i monaci a meditazione, a piangere i morti, ad onorare i santi, ad unire infine la parte immortale dell’uomo coll’ Eternità. - Questa bella opera fu condotta nel 1490, essendo Abate Francesco I da Buara, ed allora furono pur compiuti ed i bellissimi aquai che fiancheggiano la porta del refettorio e la ricchissima porta stessa.

Si fermò a lungo il Caliari a considerare gli ornamenti ed il minuto fogliame intagliati con sì esatta accuratezza su marmi bianchi e neri, insieme ingegnosamente combinati; ammirò quella delicatezza di scalpello, quella finezza di meandri, di delfini, di teste e disse con quel suo gentil sentimento del bello che non lo abbandonava mai:

- Adesso si lavora di certo più riccamente, ma la dolce impressione che viene da così cara ed ingenua delicatezza, non la sanno più riprodurre; (grande verità codesta che diceva in quell’istante il Caliari, e fatta a testificare come l’arte vera e grande non viva che nel cuore. né possa essere surrogata mai da tecnici magisteri, per quanto sublimi).

Entrarono tutti e tre nell’amplissimo refettorio, ove lo Zelotti avea potuto sfogare il suo spedito pennello in 12 grandissimi quadroni ad olio. Fu prima cura dell’Abate di spiegare ad uno ad uno i soggetti, quasi Paolo non sapesse indovinarli (13): ma egli trascorreva quell’opere un po’ sbadatamente e, nelle fredde approvazioni che a lontani intervalli gli uscivan di bocca, lasciava trasparire quanto poco ne fosse contento. Né si poteva in coscienza accusarlo di troppo severo, giacché è forza dirlo, non sono la miglior cosa che lo Zelotti dipingesse.

Bene si fermò a lungo Paolo dinanzi allo stupendo fresco di Bartolommeo Montagna che stà in faccia alla porta: rappresenta il Crocefisso fra san Giovanni e la Vergine, mentre Maddalena genuflessa abbraccia la croce. Pareva impossibile allo Zelotti, ed anche un pochino all’Abate, che il gran Paolo potesse far conto di tanta secchezza e non badasse quasi per nulla alle larghe e libere pennellate dei quadroni appesi alle pareti. Ma il grand’uomo, tuttoché non valesse più a seguitare quelle ingenue maniere del quattrocento, le amava, le riconosceva le sole che meglio servissero a sorprendere nella natura la verità tipica colla quale soltanto il pittore può giungere a spiegare le idee che serra nel sentimento. Religioso poi per intima e sincera fede, ammirava ben più che come artista la potenza di que’ pittori, a saper improntare tanta devozione nel volto de’ santi. E in quel fresco poi del Montagna non rifiniva di considerare il Cristo in croce, uno dei più belli che l’arte facesse mai, perché v’è là dentro tutta la divinità del figlio di Dio, e la più nobile calma del Giusto che muore.

- Poiché fate, messer Paolo, sì gran conto di questi istecchiti antichi, replicò l’Abate, or vi condurrò a veder un Cristo Passo che serbiamo dipinto a fresco in uno stanzone che ci serve d’archivio: forse vi troverete pregi che noi poveri profani non sappiamo rinvenirvi davvero. Si mosse allora l’Abate accompagnato dai due amici verso lo stanzone indicato, ed aprendo un armadio, additò loro una mezza figura di un Cristo morto, sullo stile, o piuttosto sulla scuola del Montagna. Quell’opera si conserva ancora ed è stimabile, sì per l’espressione di sofferenza che traspira dal volto, ma è segnata poveramente e senza nessuna scienza del nudo. Piaque quindi a Paolo per la prima ragione, ma troppo era adoratore delle forme e del vero per saper perdonare il secondo difetto, quindi senza tante smorzature, la disse fatica principale d’assai all’altra del Montagna.

Uscita di là, la piccola brigata passò a visitare la libreria ove il mecenatismo del Padre Abate aveva allogato allo Zelotti tutto il vastissimo soffitto, e quest’ultimo in quindici sfondi vi avea colorito altrettanti soggetti dell’antico testamento (20). Li teneva l’Abate pel capo-lavoro del nostro Battista, e quindi sperava che il Caliari vedendoli, avrebbe incalorite le gelide lodi, stentatamente dispensate ai dipinti del refettorio. Quanto non fu amara la sua sorpresa allorché s’accorse che il gran pittore guardava a quei lavori, segno della diuturna ammirazione de’ buoni monaci, con una distrazione spensierata così, da far perdere la pazienza ad un cappuccino! Ma a levarlo da quello stato di pena valse una parola del Caliari stesso, il quale concentrando l’attenzione allo sfondo esprimente la Fede, esclamò: - Bravo, Battista, qui m’accorgo che sei pittore ogni volta che ti piaccia d’esserlo; e che quando non ti piglia la fretta, sei capace anche ad olio quasi come a fresco. Bello veramente questo tuo concetto ed eseguito assai bene.

Giunse intanto trafelato il bibliotecario , e con quel po’ di erudita pedanteria, che potrebbe dirsi inseparabile dalla professione, propose a que’ visitanti di far loro vedere alcuni Codici preziosi e qualche libro stampato poco dopo la famosa invenzione germanica. Ma oltracché i due artisti di queste cose non se ne intendevano un acca, l’ora facevasi tarda per Paolo, che protestava di esser forzato a tornarsene tosto a Castelnovo, poi a Padova.

- Stà bene, disse l’Abate, ma non partirete senza che vi siate rifocillato un poco, ché son già delle belle ore che siete in piedi. Ciò detto, lanciò uno sguardo significativo a un laico perché facesse subito ammanire la colazione: la quale mercé le previdenze di esso, stava già da un buon quarto d’ora aspettando i commensali nella loggia del cortile pensile, precisamente dinanzi alla porta del Capitolo.

Giunti colà i due pittori e l’Abate, vi trovarono i due giovani seguaci e discepoli a Paolo, i quali allora allor erano calati dal monte, e nella bocca sudicia, come nelle mani tinte d’amaranto. attestavano l’orribile sacco a cui avevano sottoposto i poveri tralci delle viti. Tutti e quattro i pittori si sarebbero volentieri gettati senza cerimonie addosso al formaggio ed aì frutti che li invitavano ad un desco molle, consolato da mille lenocinii d’apparenza e di odore; ma l’Abate, implacabile nel suo mecenatismo, e come tutti gli amatori, inesauribile estimatore di tutto quello ch’avea sembianza di pittura o di statua, li pregò di pazientare un pochino finché li avesse condotti a visitare quella stanza del capitolo ove, a dir suo, conservavasi un pregevole fresco. Difatto entrativi videro, di riscontro alla porta, dipinto un Cristo deposto nella tomba colle Marie. Ai fianchi stanno s. Giustina e s. Benedetto in due nicchie;. in alto, in due rotondi, i profeti Davidde ed Isaia. Era un passabile fresco dli scuola tizianesca (or per disgrazia tutto ridipinto) forse condotto da quel Girolamo dal Santo che guadagnò sì grande onore nel chiostro di s. Giustina di Padova: e la brigata ne avrebbe sinceramente ammirato il bello ed armonico colorito... se (tanto fa spiattelarne la prosaica ragione) la colazione non fosse stata là ad esercitare le più efficaci tentazioni antiestetiche.

Pagata all’ospitalità dell’Abate quest’ultima gabella, tutti sedettero alla tavola rizzata sotto quelle ridenti arcate in cospetto del più lucido sole che dar si potesse, e rinfrescati da quell’allegro rimbrezzare dell’autunno fra’ monti. Figuratevi se lasciarono neppure una bricciola della pingue imbandigione: e l’ilarità pareggiava in energia l’appetito, perché ad ogni istante si ripeteano romorosi viva al gran Caliari, all’arte, al Veneto Governo, e perfino credo, tanto lo scilinguagnolo s’era fatto improvvisatone di brindisi, al valoroso gran mastro La Valette, che in quell’anno difendeva da eroe Malta assediata da’ Mussulmani.

Ma l’ora avanzavasi, e Paolo incalzato dalla furia s’alzò, facendo segno ad un de’ discepoli che si portasse a far preparare i cavalli. Ringraziato quindi cordialissimamente l’Abate, a cui col più bel garbo del mondo raccomandò d’essere indulgente verso la pala di s. Primo e Feliciano, quando l’avesse veduta, discese alla porta del monastero ove dié l’ultimo abbraccio al suo caro Battista. Quando stava per montare in sella: - ehi! maestro, disse Dario Varotari che gli teneva la staffa, avete visitate tutte le belle cose qui del convento e vi dimenticate d’una fra le migliori; guardate, ve ne prego, agli ornamenti di questa porta di ingresso, se possono essere più gentili e più finamente scolpiti. Si voltò a quell’avviso il Caliari, e fu maravigliato davvero di così bell’opera, una delle più squisite che l’arte lombarda facesse mai, e lamentando ch’essa non andasse congiunta a prospetto rispondente a sì cara leggiadria, montò in sella e partì, risalutando ancora lo Zelotti e l’Abate.

***

Da quel giorno, nessun avvenimento artistico d’importanza allegrò i silenzii del monastero di Praglia; anzi parve che l’arte più non prediligesse il taciturno ricinto. Né è già che vi fosse sbandita del tutto, ma vi apparì raramente, e traviata da quei delirii che dopo il secolo sestodecimo scombinarono lo spirito e lo scibile umano. Il barocco che pareva non dovesse inondare se non le reggie de’ dominatori spagnoli, della cui oppressiva ed insultante ricchezza era mirabile attestazione, il barocco s’intruse soppiatto da prima nell’umile chiesa di Cristo, poi la invase tiranno, s’attorcigliò in ispire, in bitorzoli, in cartocci intorno al modesto altare dell’Agnello divino, infardò di cincischii inverecondi le volte e le sacre colonne, sicché finalmente disparve l’austera semplicità della casa del Signore.

Anche il cenobio di Praglia ebbe a tollerare la mortifera peste; ed il miasma letale che non potea impodestarsi colà né della architettura, né della pittura, perché l’una e l’altra, conservatissime mostrandosi, non permettevano d’essere insozzate dai novelli ornamenti dell’età malata, penetrò nel refettorio, ghermì le panche che doveansi rinnovare; (era l’anno 1728) e per opera di certo Biasi intagliatore di Venezia, menò orrendo strazio del povero legno d noce destinato ad ornarle. E quasi non bastassero i barbari fogliami ed i ricci che erano in moda allora, venne un Padre del monastero a farvi aggiungere un subbisso d’emblemi morali, oscuri, puerili, degni dell’età che ancora bagnava co’ soli ed asciugava co’ fiumi. Di codesta stramba simbolica se ne compiaque il buon Padre come d’opera insigne, e ne publicò un opuscolo a fine di illustrarla: fece forse bene, giacché senza tale aiuto non sarebbe agevole decifrare que’ logogrifi (21).

Ma intanto alle aberrazioni artistiche dell’Italia, ed alle fiacchezze oscene del secolo decimottavo, succedevan sanguinosi travolgimenti. L’uomo che fu Cesare a 22 anni, Cromvello a 30, il despota più fortunato e più punito della terra, tutto ghermì colla sua mano di ferro; quanto avean di più caro e di più sacro gl’ltaliani, a cui il sanguinoso Conquistatore pur era fratello, egli o distrusse o rapì. Odiatore del popolo, abbatté tutte quelle istituzioni che ne furono un tempo la rappresentanza più nobile, la guarentigia più salda contro le ferocie feudali; perciò aboliti tutti quanti i conventi. E quello di Praglia corse la sorte comune. Fu ancora gran ventura, se, dispersi i cenobiti, quelle rapaci arpie de’ commissarii francesi non demaniarono (parola eccellente ad esprimere la squisita arte del rapinare che possedeva Francia allora) i dipinti della chiesa e del monastero; e quest’ultimo non convertirono in una Caserma od in un Deposito annonario.

Si fecero intanto più miti i tempi; il pacifico asilo fu riaperto ai dispersi monaci; ed alcuni, cui i novelli ufficii ecclesiastici non impedivano di tornar alla vita claustrale, vi si raccolsero di nuovo. Uno fra questi che l’Italia già venerava come profondo indagatore della bellezza nell’arte, non allettato dalle lodi del mondo, riparò nelle austere mura a contemplare un Bello più sereno e più alto: e se le lettere italiane deplorano silenziosa per sempre la elegante sua penna, se ne allegra come di fausto avvenimento la Chiesa contenta di quella rigida virtù in cui, come nell’animo dell’insigne Monaco di Chiaravalle, ferve sereno, puro, fortissimo quell’amore che ne vuol tutti congiunti ed uguali sotto il più consolatore de’ vessilli, la Croce.

Pietro SELVATICO

NOTE
(1) Di questo celebre monastero parlò il Rossetti nella Guida di Padova pag. 359, ma egli non fece parola che de’ dipinti. - Più esteso e più diligente lavoro ne dettò il sig. Ing. Giuseppe Maria Pivetta - V. Notizie sul Monastero di Santa Maria di Praglia raccolte dall’Ing. Giuseppe Maria Pivetta. - Padova per Crescini 1831.
(2) Tuttoché le prime edizioni di Vitruvio sieno del 1486, ed in Venezia esistesse fin dal 1404 un insigne Ms. di questo autore, pure non è da pensare che i veneti architetti potessero valersene ancora, perché tanto la stampa che il Ms. erano in latino, lingu già universalmente dimenticata dal popolo, e per conseguenza anche dal maggior numero degli artisti. La prima traduzione italiana di Vitruvio comparve a Como nel 1521 coi commenti di Cesare Cesariano. (V. Poleni Exercitationes Vitruvianae: Patavii 1739 pag. 38 e 130). Ed è infatti solo da quel momento che li architetti si posero a studiare l’autor latino ed a portarne le regole ne’ loro edifizii. Prima d’allora osservavansi i ruderi antichi, si applicavano talvolta modificati alle nuove fabriche, ma nessuno pensava di porre alle proprie creazioni i ceppi d’un trattato individuale, e neppur rinomato nell’epoche in cui fu scritto, com’è quel di Vitruvio.
(3) Parrà a molti singolare che nella pianta di codesta chiesa si scorgano per gran parte serbate le tradizioni dell’arte gotica, e quindi quella ordinanza generale di proporzioni e di leggi geometriche a cui sommettevansi allora le chiese. - Gli architetti del secolo tredicesimo adoperavano in modo particolare il quadrato, la sua diagonale ed i suoi lati, la cui base quadrata adottata come Metro (misura per eccellenza) posta all’intersecazione delle quattro braccia della croce, dava le proporzioni delle differenti parti del monumento. Dallo sviluppo delle sei facce del cubo ottenevasi la croce latina: la croce orientale o greca non adottava in vece se non cinque quadrati, per cui l’unità, vale a dire la radice del quadrato ripetevasi tre volte nella larghezza e nella lunghezza, e quindi ne venivano i lati uguali, sempreché si contasse due volte il quadrato centrale. Nella croce occidentale per contrario, più fedele all’antica forma allungata della basilica, le sei facce del cubo si veggono quattro volte sulla lunghezza e tre sulla larghezza, e di frequente cinque ed anche sei sulla lunghezza. Nelle iconografle delle basiliche ritenevasi poi un’unità assoluta, formata geometricamente, sulla quale fondavansi le quantità egualmente che le disposizioni delle parti secondarie. Quest’unità usciva o dal numero de’ lati del coro, o dal quadrato centrale su cui reggeasi la cupola, e da cui partivano le braccia della nave maggiore. Quindi se il coro poligono avea sei lati, sei per parte erano pur le finestre, sei le cappelle ec. Lo stesso dicasi se i quadrati della nave centrale fossero stati sei. (Ramée, Manuel de l’Histoire générale de l’Architecture t. II - C. L. Stieglitz. Geschichte der Baukunst vom frühesten Alterthume bis in die neueren Zeiten: Nurimberg 1827). È singolare che conservandosi sempre dagli architetti del medio evo civile un gran rispetto alla ragione geometrica ed alle rispondenze del numero, sia rimasta ne’ posteri l’opinione che lavorassero a caso, senza norma nessuna. Più singolare che s’accusassero dello stesso peccato gli architetti che si fecero a rinnovar l’arte con forme più italiane e più eleganti ; cioè il Brunelleschi, il Lombardi, il Formiggine ec. E sì, essi seguitarono le gotiche tradizioni e, tranne le forme, le adottarono per gran parte, come possiamo averne prove anche nella pianta di questa chiesa, la quale prende a norma il quadrato ed il numero cinque. Infatti pigliando a regolo il quadrato in cui si inscrive la cupola, lo vediamo moltiplicarsi cinque volte dall’ abside sino alla facciata: cinque per parte vediamo esserne le cappelle, cinque gli interpilastri, cinque le divisioni della facciata, cinque quelle della nave trasversa. Pure seguiterassi, sa Dio ancora per quanto, a dire che lavoravano senza regola nessuna, e perché? perché molti non sanno chiamar regole se non quelle di Vitruvio e di Palladio, le quali vincolando con norme fisse, ancor più i dettagli che l’insieme, imbrigliano la fantasia, o la fastidiscono, mentre le norme dell’arte gotica, lasciando a’ dettagli la maggiore libertà provvedeano al vario nell’uno, quindi conservavano le armonie dell’ordine.
(4) Nel finire del quinto decimo secolo i francesi teneansi i miniatori più insigni. Dipingeva allora quel Maestro Giovanni Fouquet di Tours pittor di corte di Luigi XI che ci lasciò le famose miniature che veggonsi a Francfort in casa del Sig. Brentano, e che a me paiono il non plus-ultra dell’arte. - Da quell’artista parte una serie di miniatori abilissimi ch’ebbero gran nome anche in Italia.
(5) Ridolfi: Vite de’ pittori Veneziani Ediz. 2 - Padova 1837. Vita di Paolo pag. 77.
(6) Ridolfi, ib. Vita dello Zelotti: pag. 94.
(7) S’ignora su quali argomenti il Brandolese in un suo ms. veduto dal signor Pivetta affermasse essere quest’opera eseguita nel 1574, giacché sull’angolo principale del quadro, a sinistra, vi stà l’anno 1559. - Il Badile morì nel 1560.
(8) Ridolfi, ib. Vita di Dario Varotari pag. 274.
(9) Ridolfi, Vita di Paolo pag. 79.
(10) Ora si vede impiastricciata da ristauratori, specialmente nelle vesti.
(11) Vasari e Ridolfi nelle lor vite del Tintoretto.
(12) Vasari, Vita del Tintoretto.
(13) Fu dipinta quest’opera nel 1 5 6 2 come consta dalla iscrizione che vi stà sotto: Luchas de Longhis faciebat. 1562. - Forse il pittore vi introdusse quella carrozza, perché precisamente nell’epoca in cui coloriva questo quadro le carrozze erano una novità che menava gran romore e solleticava la curiosità d’ognuno. - Quando nel 1564 Guglielmo Booner cocchiere della regina d’Inghilterra le introdusse a Londra, le si stimarono cosa sì rara che le più eccelse dame vollero averne speciale privilegio.
(14) Ridolfi, Vita di Paolo pag. 79.
(15) Questo famoso Manoscritto è ricco di preziosissime miniature condotte da tre dei più celebri maestri fiamminghi; Giovanni Hemmelinck, il Perugino di quella scuola, Gherardo di Gand, che forse è Gherardo Van der Meire, e Livieno di Anversa, che potrebbe essere Livieno di Mitte. Conservasi ora nella Marciana a Venezia, ed è uno de’ più belli, e fors’anche il più magnifico codice miniato che esista!
(16) Vasari, Vita di Francesco Primaticcio, ove verso il fine è parlato del Longhi colle parole che qui si riportano.
(17) Dice il Rossetti (Guida di Padova pag. 361) che sopra la porta di questa sagrestia v’era un quadro di Giovanni Bellini, ma non ne accenna il soggetto.
(18) È curioso che in tempi più vicini a quello stile si dicesse tedesca, com’era in fatti, e molto dopo ed anche adesso vogliasi dire o gotica o normanna o gotico-araba.
(19) I soggetti di que’ 12 quadri sono i seguenti:
- I tre sopra la porta rappresentano la Regina Saba dinanzi a Salornone.
- Dal lato del pulpito: La preghiera di Mosè al Monte Sinai, l’apertura delle tavole fatta da Mosè ad Aronne, Gesù Cristo che scaccia dal Tempio i profanatori, la discesa dello Spirito Santo.
- Al lato opposto, Gesù sul monte Oliveto predicando a’ discepoli, Gesù disputa in mezzo a’dottori, Mosè riceve la legge, il figlio prodigo, la benedizione di Giacobbe e di Esaù.
(20) Ecco i soggetti de’ 15 partimenti:
- Al lato estremo, negli angoli, due Sibille e nel mezzo Daniele
- Mosè ed il roveto ardente
- La Religione di Gesù Cristo
- Abramo sacrifica Isacco
- Giuditta colla testa d’Oloferne
- La Fede
- loele pianta il chiodo nella testa di Sisara
- Sansone con le porte di Gaza
- I Vescovi flagellano gli eretici
- La scala di Giacobbe
- All’ altro lato, altre due Sibille agli angoli. In mezzo, Golia ucciso da Davide.
(21) V. Girolamo Maria Rosa - Il Refettorio Morale, ossia spiegazione de’ simboli intagliati negli ornamenti del Refettorio maggiore del Monastero di Praglia - Padova 1727.

Fine

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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(Ritratto di Federico II)

Vi è un affresco attribuito al pennello di Palma [il Giovane] e rappresenta il Principe nel fiore degli anni in abito da guerriero, con l'elmo in testa.
È una mezza figura al naturale incorniciata da un fregio esistente nel vestibolo della sagrestia e precisamente sopra la porta che mette nel chiostro pensile. 
La ragione dell'esistenza di questo ritratto è spiegata dall'iscrizione latina che si legge in calce:
"Fridericus II Luins Monasterii Magnificus benefactor et multorum privilegiorum largitor" (Federico II grande benefattore di questo Monastero e largitore di molti privilegi). Sembrerebbe quasi un'ironia il nome di grande benefattore, ma poiché l'Abbazia di Praglia non gli oppose resistenza, Federico II volle insignirla dei diritti feudali e con diploma del 27 marzo 1232 concesse all'abate le contee di:
- Tramonte,
- Val S. Eusebio e
- Tencarola,
con tutti i diritti e le prerogative inerenti.
Di qui, naturalmente, la gratitudine dei monaci di allora e il mostrarsi essi partigiani dell'abborrito principe anche quando egli, per la sua fellonia, meritava di essere scomunicato da papa Gregorio IX nella stessa città di Padova (1239), dove trovavasi a festeggiare, col feroce Ezzelino III da Romano, l'oppressione de' suoi avversari.
[Da Maria Michieli ved. Padovani, Una curiosità storica nel Monastero di Praglia, in «Ars et Labor» 8/1907]