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  Volo Viaggio nella Storia  

1846, di Antonio Dall’Acqua

MONSELICE

Incertezze storiche - Tempi romani - Longobardi - Inondazioni - Duomo vecchio - Crescente importanza di Monselice - Sede vescovile di Padova trasferita a Monselice - Padova risorta a merito de’ suoi vescovi - Estensi - Fortificazioni e palazzo d’Ezzelino - Le sette chiese.

Poche e vaghe indicazioni possiamo offerire. Questo monte di selce (silicis) memorabile per le cave di trachite, lo fa ancora più per la fortezza del sito, finché alla rinovata arte militare parve di troppo difficile esecuzione il giovarsene. Allora, arnese disutile, la rocca di Monselice fu dimenticata: ben presto le sue fortificazioni andarono deperendo e le sue memorie sparvero: imperciocché al tempo della lega di Cambrai, non ultimo, né il meno deplorabile de’ guasti toccatigli, il suo archivio andò in fiamme. Da due secoli in qua, pari, se la figura si passi, a veterano campione che inetto all’armi vesta cocolla e cilicio, celebrasi Monselice per la devozione delle sue sette chiesette, nelle quali altrettante indulgenze si promettono quante uno potrebbe ritrarre dalla visita delle sette chiese di Roma. Noi verremo discorrendo queste varie storiche vicissitudini com’ è comportato dall’incertezza de’ fatti e dalla natura di questo scritto.

Tradizioni meravigliose non mancano. Un Opsicella compagno d’Antenore ne sarebbe stato fondatore: o meglio ancora sarebbe Monselice una delle trentaquattro castella del Padovano esistenti prima di Antenore. Nei tempi di Roma il castello di Monselice difendeva la via Emilia Altinate che vi passava presso: a que’ secoli può farsi ascendere la torre di romana massiccia costruttura che sorge in vetta del monte (1). Non è più menzione di Monselice fin al sesto secolo: “Alboino, dice Paolo Diacono, Vicenza, Verona, e le altre città (civitates) della Venezia, tranne Monselice e Mantova, occupò„.

L’Alessi vorrebbe inferire da questo passo che Monselice figurasse allora qual città. E perché qualunque altra volta è particolare discorso di Monselice, il medesimo Paolo Diacono la chiama castrum, si fa l’Alessi a provare non essere altrimenti vero che la voce latina castrum. equivalesse alla nostra castello (2). Noi differiremo a più opportuna occasione un assai dotto squarcio che tenevamo in serbo a tale oggetto. Fatto sia che Monselice mantenutasi trent’anni inespugnata contro i Longobardi, per tutto questo tempo offerse un sicuro asilo ai miseri abitatori di queste terre.

Qual fosse intanto la condizione della straziata Italia, l’abbiamo da Paolo Diacono: chiese spogliate, sacerdoti uccisi, città ruinate, popoli, già cresciuti come le messi, distrutti. Di tanti mali aggiungasi, inevitabile conseguenza nelle nostre terre piucché altrove, lo straripamento dei fiumi. Si vede che i nostri fiumi, di continuo crescendo per alluvione, talora per istraordinaria piena ingrossando, anche oggidì allagherebbero la regione circostante, ove non fossero artifizialmente contenuti entro lor letto e talvolta interamente sostenuti dagli argini. A tali ripari indispensabili aggiugneano quegli antichissimi proavi nostri altri più acconci mezzi, de’ quali noi usiamo meno, quantunque il bisogno ne sia, nonché pari, maggiore: lo sfogo de’ canali. Di due vasti antichissimi, nei quali travasavasi buona massa delle aque dell’ Adige, ravvisò già le tracce un meritissimo storico nostro (3); in Saletto di Montagnana principiava l’uno, l’altro presso il ponte della Torre in Fossarotta. Strani parranno i luoghi di questi canali, considerato l’attuale corso dell’Adige; ma appunto all’epoca longobarda credesi abbia ad attribuirsi il mutato corso di quel fiume. Il quale prima d’allora dalla propria foce del Tirolo scendeva a Verona tosto volgendo verso Montagnana, indi Este, e le ville del Deserto, di sant’Elena e di Solesino: e v’ha chi crede che un ramo d’esso fiume divergesse alla volta di Monselice. Ma l’anno 589, regnando Autari, le aque proruppero con sì gran furia, che distrutte n’andarono strade e ville, le campagne ridotte laghi: l’Adige in Verona arrivò alle più alte fenestre di san Zenone, e lasciato l’antico letto per nuova via corse al mare (4). Imperciocché se agli argini è mestieri d’essere continuamente riattati e alzati, non minori cure si vogliono per i canali affine d’evitarne l’interrimento: ma queste, come tutte altre arti necessarie a tranquilla convivenza sociale, tra i miseri abitatori spaventati, inseguiti, sterminati, e sotto il dominio degli sfrenati invasori, ben dovettero deperire.

Frattanto validissimo rifugio a chi per tema dell’armi straniere, o per fedeltà all’esarcato, o per amore di patria non avesse voluto darsi ai Longobardi era Monselice: altezza e fortezza di sito; doppia difesa contro la doppia inondazione dei barbari e delle aque. E vi concorsero infatti dall’atterrita Padova e dalla desolata Este tutti que’ che non ripararono tra le miracolose marernme. Qual vita si menasse colassù parlano per buona parte le rimaste vestiggie; tuttora si veggono i resti di ben murata via donde scendevano gli appiattatí profughi ad ispiare il nemico, o riconoscere lo stato del terreno , o rivedere alcun tratto i luoghi abbandonati. Di quivi calavano i famigerati predoni monseliciani, ché senza rapina non s’avrebbe conservata la vita, sia che seguissero antico vezzo de’ maggiori, sia che per tali fatti appunto cominciasse appropriarsi a quei di Monselice simile nominanza. Per certo Albertino Mussato (5) non sembra farne loro rimprovero. Né forse questa che dicemmo era la sola via, anzi tradizione antichissima dura, che dalla torre della vetta sotterranea scala scendendo, e aggirandosi per le viscere e fino alle radici del monte, mettesse in comunicazione i varii punti fortificati, e uscisse alla campagna.

Ci arresteremo considerando quell’ammasso di rottami tra cui sdrucciola il piede e la persona arrampica impedita dai rami di fico che stendonvisi ineducati e spessi, che chiamasi tuttodì il duomo vecchio. Per quanto l’inesperto occhio nostro può recar giudizio, sono questi memorabili avanzi del tempo di cui parliamo.

Vi si arriva per un malagevole sentiero sospeso sopra le cave di trachite. Due porte danno accesso ad un angusto vestibolo, porte e vestibolo ben conservati: una feritoia, che sovrasta alla porta maggiore, ammonisce come la casa dell’orazione divenisse assai spesso rocca di salvezza. Dal vestibolo entri nel breve ricinto dell’antica cattedrale; il suolo ingombro delle macerie del tetto, pietre o scheggie o grossi ammassi. Parte dell’abside dell’altar maggiore è tuttavia in piede, e sulle cadenti muraglie alcun vestigio di antiche pitture: da un lato diresti una deposizione dalla croce, ma l’atteggiamento e le figure mal si discerne; dall’altro lato, cortese miracolo del caso fu ben codesto, una soave testa di donna quasi non tocca. Di qual volto di diletto hai tu qui effigiato l’imagine, o ignoto antecessore di Giotto e di Cimabue, che i secoli e le ruine e le intemperie gli portarono amore, e quale predestinato evento, dopo forse mill’anni, condusse qui taluno a mirarlo e farne memoria anziché il tempo l’avvolga nell’inevitabile crollo?

Se Monselice ai Longobardi cedesse per la forza o per, ostinato assedio è dubbio. Paolo Diacono nulla dice del modo con cui fu presa, né del destino che le toccò; ma per tutto il tempo della longobarda dominazione non è più memoria di Monselice. Sotto i primi imperatori franchi nominasi qualche volta per incidenza e sempre equivocamente. L’Alessi vorrebbe provare che nel 874 Monselice avesse un contado; ma tutto risolvesi con supporre un errore di copia in un documento di quell’anno (6). Nondimeno troppo vantaggiosa era la posizione perché fosse a lungo negletta, e già Monselice ricupera tutta la sua importanza nelle ultime sciagure di Padova per la discesa degli Ungari. Come questi terribili invasori calassero in Italia è noto, nota la fatale disfatta di re Berengario sulle rive del Brenta. Non fu, dice Muratori, un fatto d’arme, fu un vero macello di carne umana.

E fu inaudito sterminio delle città nostre: monumenti e documenti perirono: Padova ne fu spianata. È questa l’epoca del maggiore concorso al forte asilo di Monselice: vorrebbe l’abate Brunacci che perfino la sede vescovile venisse ivi trasferita. Opinione che, quantunque non affatto giustificata, ottiene eminente grado di probabilità da ciò che il dittico della cattedrale ci fa credere Pietro II vescovo di Padova rimasto vittima degli Ungari; e mons. Dall’Orologio, non trovando menzione alcuna di questo vescovo dopo l’anno 899, s’accomoda a tale soluzione (8). Ad ogni modo fuor di dubbio è a tenersi la cresciuta importanza di Monselice, che annoverò la ruinata Padova tra i luoghi del suo contado. Ciò è provato da un documento dell’anno 950 che il Brunacci riporta, illustrato da lui, e più chiaramente poscia da altro erudito, il Cognolato (9).

E qui osiamo asseverar francamente dovere la chiesa non meno che la città di Padova alla patria carità de’ suoi vescovi la sua attuale esistenza. I quali se meno provvidenti erano o meno armati della terra loro, la deserta Padova vivrebbe oggidì d’una fama pari a quella d’Altino o d’Aquileia: qui verrebbe il forestiero a visitare i resti dell’era romana o del basso impero; ché certo molti se ne conservava a questo tempo; imperciocché l’impeto barbarico non può tanti guasti recare, quanti la lenta azione degli abitatori che disfano, e rifanno, e mutano faccia a tutto, come se lo spazio mancasse, e per erigere fosse mestieri distruggere. Frattanto Monselice aumentata d’abitatori e di edifizii, divenuta una grande città in amena e forte positura, avrebbe corse le sorti che aspettavano Padova o quelle che la diversità delle proprie condizioni le avesse preparata.

Ma ammessa eziandio l’opinione di Brunacci della trasferita sede vescovile a Monselice, questa fu breve diserzione; e nei bei primi documenti che giunsero fino a noi, dopo quegli anni in cui tutto era incertezza e desolazione, noi scorgiamo i vescovi intenti a riparar Padova dai danni cagionati dagli Ungari, e prevenirne di futuri. Moltissime v’ha rinovazioni di privilegi già ottenuti dagl’imperatori o dati da essi vescovi alla chiesa per esserne stati incendiate dagli Ungari i documenti. Narra Sigonio (10) d’aver egli veduto un diploma di Berengario imperatore dato in Verona l’anno 912 a favore di Sibicone vescovo di Padova appunto per tali rinovazioni di privilegi; importante per l’epoca, nella quale siamo fatti sicuri essersi già restituita in Padova la sede vescovile. L’anno 917 Sibicone ottiene da Berengario privilegio di fortificare la chiesa e la città con castella, fosse e torri (11) e per fermo, come dimostrò Gennari (12), l’anno 950 un castello cingeva la cattedrale, e un altro castello che terminava con la Torlonga, ov’oggi è la Specola, difendeva altro lato importante della città. Munita per tal guisa contro il terrore degli Ungari, indi cessato quel pericolo, principiati i nuovi barlumi dell’incivilimento, Padova si ripopolò, s’aggrandì e riprese la sua primazia. A Monselice al tempo degli Ottoni non è assegnato un proprio conte, bensì un giudice; ciò vuol dire ch’essa figura qual città di second’ordine, forse al conte di Padova soggetta (13), ma avente un territorio proprio.

Alcun lustro parve momentaneamente aggiugnersi a Monselice, quando per dono fattone dagli Ottoni, o successori loro, venne in privato potere dei marchesi, che poi furono detti d’Este. Ma già questa loro denominazione ci ammonisce ch’essi vi fecero breve soggiorno preferendo la vicina Este. Quanto a Monselice, non andò guari che passò al fisco imperiale, privatine i marchesi come ribelli. Reintegrati poscia nel possesso loro, nol conservarono a lungo. Anche al patriarca d’Aquileia, a detta del p. Bernardo dei Rossi, passò Monselice per donazione dell’imperatore Federico Barbarossa l’anno 1161; ma nessuna attendibile memoria ne rimane di documento o di storia (14).

Ma quantunque fin dal nono secolo ogni lusinga di figurare qual città primaria fosse tolta a Monselice, siffatto n’era il sito da renderla pur sempre importante. Chiave di Padova la consideravano i Padovani non meno che i nemici loro. Come tale fece ogni opera di conquistarla Ezzelino, allora vicario di Federico II imperatore, il quale sopra ogni altra terra o città della marca predilesse Monselice, dichiarolla camera speciale dell’impero, e come tale validissimamente la fortificò. Nelle citate Notizie storiche sull’architettura padovana nei tempi di mezzo il march. Selvatico reca opinione, che a quest’epoca abbia da attribuirsi quanto di antiche fortificazioni tuttavia sussiste in Monselice. Parte importante di quell’eccellente scritto è la particolarizzata descrizione di quel vasto quadrato edificio che la tradizione ripete essere stato abitazione del tiranno Ezzelino. Da sue attente disamine trae il Selvatico nuove erudite nozioni sull’arte militare del medio evo. Riporteremo noi pure un interessante passo del cronista Andrea Gattari a proposito d’un cammino “che, quasi non tocco, serba una delle stanze superiori, probabilmente opera del decimoterzo secolo, tipo di quella foggia di cammini padovani, che Padova sola aveva, mentre tutta Italia ne mancava (15)„. L’anno 1368 Francesco il vecchio da Carrara andato a Roma alloggiò all’albergo della Luna “e non trovò alcun cammino per far fuoco, perché nella città di Roma allora non si usavano cammini; anzi tutti faceano fuoco in mezzo delle casse in terra, e tali facevano nei cassoni pieni di terra il lor fuoco. E non parendo al sig. messer Francesco di stare con suo comodo in quel modo, avea menato con lui marangoni e muratori ed ogn’altra sorte di artefici. E subito fece fare due nappe di cammino e le areuole in vôlto, al costume di Padova. E dopo quelle ai tempi indietro ne furono fatte assai. E lasciò questa memoria di sé a Roma (16)„.

Durante la carrarese dominazione non è priva di fatti la storia di Monselice, presa più volte e perduta or dagli Scaligeri, ora dall’esercito del Visconti. Qui cadde il prode Pietro de’ Rossi capitano di Marsilio e di Ubertino da Carrara l’anno 1337. Jacopo II dal nipote Francesco fu quivi imprigionato e l’anno 1372 vi morì (17). Dei danni patiti da Monselice per la lega di Cambrai abbiamo toccato dapprincipio: l’ebbero pria gl’lmperiali, poscia i Francesi, i quali non potendo mantenervisi, con istolto furore quanto poterono arsero o ruinarono (18). Termineremo come abbiamo incominciato, accennando alle sette chiese. Francesco Duodo della veneta famiglia Duodo di santa Maria Zobenigo comperò dalla republica di Venezia quel tratto di monte ove sorgono le fortificazioni, e l’altro da dette chiese occupato. Fu egli che tramutata un’antica chiesa di san Giorgio in palagio, di fianco ad essa altra n’eresse al medesimo Santo, la quale è la maggiore delle sette privilegiate. Le altre sei debbonsi a un Pietro Duodo suo figliuolo; palagio e chiesette d’architettura dello Scamozzi.

Che cinque Tavole d’altare sienvi dipinte da Palma il giovine difficilmente indovinaci da chi si faccia a considerarle oggidì danneggiate come sono. A Francesco e Pietro Duodo fondatori del luogo aggiugneremo il nome di Niccolò Duodo. Un medaglione coniato l’anno 1720 nella parte diritta ha il busto di lui con l’iscrizione Nicolaus Duodo S. R. I. comes et eques; vedesi nel rovescio con leggiadra precisione effigiato il monte, e nettamente lungo lo stradale, come sono le sette chiesette, con le parole romanis basilicis pares, le medesime che leggonsi sull’ingresso dello stradale (19). Delle preziose reliquie de’ santi martiri che si venerano nella maggiore chiesetta di san Giorgio lasciò particolarizzato e pregevole elenco il Cognolato.

Ricorderemo da ultimo le cave di trachite abbondevolissime e famose tanto, che ad esse, a memoria d’uomini, deve il luogo il proprio nome e inalterabilmente lo conservò. Onde per un singolare contrasto, questo bel colle, ameno di natura e d’aspetto, fiorente d’abitatori, è detto monte di selce, mentre l’altro che gli stà di riscontro immane, scosceso, ignudo in vista, chiamasi monte ricco.

Antonio DALL’ACQUA

NOTE

(1) Selvatico, Notizie storiche sull’architettura padovana nei tempi di mezzo, «Giornale di belle arti», anno I pag. 314.
(2) Alessi, Ricerche istorico-critiche dell antichità di Este, P. I. c. XV. P. 335.
(3) Alessi, op. cit. c. I.
(4) Indizio sicuro dell’antico corso dell’Adige rimase in quella vasta e lunga striscia di terreno detta le lupie di Montagnana. Veggasi Geron. Atest. cron. vulg. c. 2; Alessi, op. cit. c. I; Gennari, Ant. Corso de’ fiumi; ec. Lupie nel linguaggio del luogo significa terreno infecondo.
(5) De gestis italicorum post Henricum VII L. 8 seu fragmentum de captione Montis Silicis.
(6) Troppo sovente l’Alessi suole valersi di tal arma. Fin dal principio del suo libro suda sangue per provarci che venti miglia romane possono benissimo nel caso suo equivalere a quindici miglia nostre: per venti vi riesce; e per le cinque che restano si trae d’impaccio con accusarne il copista. Gran dire che questi dannati amanuensi sbaglino proprio nelle maggiori strette degli eruditi!
(7) Stor. Eccl. Pad. Mss.
(8) Dis. II. - Anche l’Alessi non rifiuta la conghiettura del Brunacci op. cit. c. XVI.
(9) Cognolato, Saggio di mem. della terra di Monselice ec.
(10) De regno it. L. 6.
(11) Verci, cod. ecel. N. 1.
(12) Ant. Corso de’ fiumi, p. 15.
(13) Forse il medesimo vescovo era conte di Padova. Vedi Cognolato op. cit.
(14) Seguendo il Cognolato, sarebbe qui luogo al racconto d’una lotta civile avvenuta in Padova a cagione di certo palagio che fu poi venduto agli Scrovegni. Ma l’erudito scrittore non mirò che non già dei Monseliciani, bensì della famiglia Damonselice era il palagio in questione. Perciò ne’ Cenni storici sulle famiglie di Padova fu già collocato un tal fatto. Veggasi l’op. sudd. Art. Scrovegni.
(15) Selvatico, Art. cit.
(16) Gattari, Rer. It. Script. T. XVII.
(17) Cittadella, Stor. della dom. carr. C. XVII, e c. XXIV.
(18) Bembo, Ist. Ven L. X.
(19) Questo medaglione fu da noi veduto presso il ch. dott. Pietro Martinati.

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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