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 Altri tempi

1846, di Giovanni CITTADELLA

E S T E

Este città illeggiadrita dal sorriso di amena postura, giocondata dal vicino saluto di colli fertili e dilettosi, anzi ella stessa in parte sovra agevoli alture, lieta d’un nome fra i primi che la storia registri nelle prospere e fortunose vicende del paese italico, altera di monumenti che ancora ne attestano la passata importanza, ravvolve i suoi principii nel buio di lontanissimi tempi; oscurità luminosa per chi dalla vetustà delle origini misura il vanto delle famiglie e de’ popoli. Ella è l’Ateste dell’antica Venezia, e pare essere stata eretta dagli Euganei 1200 anni circa prima dell’era volgare, quando cacciati da Antenore condottiere degli Eneti furono costretti ad abbandonare le loro sedi ed a ritirarsi nei vicini monti. Parecchie sono le etimologie della voce Ateste: ma sembrano dar nel segno sopra ogn’altro quelli che la traggono dal fiume Athesis il quale correva rasente la città con largo vantaggio ai commercii di quel popolo. In- processo di tempo la vicinanza dei due territorii euganeo ed eneto, o veneto, la vicendevole sollecitudine di questi due popoli nel tener fronte prima agli Etruschi, poscia ai Galli, accomunò loro il nome, e veneti ambidue si appellarono. L’anno 529 di Roma, Este, insieme colle altre città venete, si federò ai Romani contro i Galli, somministrando quel numero di soldati che rispondeva ai bisogni e alla ragione della sua provincia, perché ogni città della Venezia si reggeva da sé.

Continuò Este e la Venezia a vivere collegata co’ Romani, finché dopo la seconda guerra punica estesero essi in Italia il loro dominio ed anche sulla Venezia. Ecco Este pertanto soggetta a Roma, ma non privata delle sue leggi, tranne le contrarie all’indole della legislazione romana e solamente legata di dipendenza al proconsole mandato da Roma nella Venezia, della Gallia Cisalpina, quando i Romani conquistarono questa provincia e ne allargarono il nome alla vicina e meno ampia Venezia. Anche ad Este. come alle città venete, fu conceduto il gius del Lazio circa l’anno 665 di Roma, cioè la condizione di colonia, dopo che gli altri Italiani mercé la guerra sociale ottennero la cittadinanza romana, grado, per opera di Cesare, concesso poscia parimente alla Venezia. Divenuta allora municipio Este apparteneva alla tribù romulia, la prima delle rusticlhe e la prima nei comizii a dare i suffragi. L’anno 723 di Roma molte città italiane per volere d’Augusto furono costituite colonie a fine di gratificare ai soldati e fra le sì fatte si novera Este.

Dalle favelle degli Eneti, degli Etrusci e dei Carnii sembra essere nato un miscuglio d’idiomi in tutta la Venezia, del quale per altro non si ha verun indicio finché Roma, oltre che il proprio governo, v’introdusse anche il proprio linguaggio, che maggiormente vi si dilatò quando alla Venezia fu accordata la cittadinanza romana. Il somigliante dicasi del vestito e dei nomi di famiglia che molti, si piaquero di prendere dalla città dominante.

I cittadini vi si partivano in due classi, vale a dire ordine e plebe, lo che suonava decurioni e popolo; sedevano i duumviri a rendere ragione, ed un prefetto che ne teneva le veci quando non v’era chi accettasse il carico di duumviri Aveva Este i suoi Augustali, così chiamati perché ministravano gli onori divini decretati ad Ottaviano Augusto dopo la sua morte, in capo ai quali stavano i Seviri che anche aveano parte nel governare le bisogne urbane.

Nella guerra fra Vespasiano e Vitellio, Este seguì la fazione di quello, lo che dagli storici è particolarmente avvertito come di città degna di nota.

Introdottasi in Este, come nelle altre città della Venezia, per opera di san Prosdocimo la religione cristiana, vi stette da principio celata, e solamente nel terzo secolo cominciò ad avere publica professione. Non abbiamo memoria di vescovi estensi, ma la importanza della città induce a credere che al paro delle altre dovesse averne pur ella, finché, dopo i danni che le portarono le barbarie dei tempi e le inondazioni dell’Adige, fu distrutta interamente da Attila alla metà del quinto secolo e perdette allora la sede vescovile.

Quando i Longobardi divennero pacifici possessori di tutta l’antica Venezia cominciò Este a rifarsi paese ed a crescere di popolazione, aggiungendovi i coloni Longobardi agli abitatori indigeni; sì bene Este dipendeva allora da Monselice.

Sembra che dagli Adalberti, duchi e marchesi della Toscana nel nono, o decimo secolo, discenda la famiglia dei Signori estensi ed abbia quindi origine longobarda, e che l’imperatore Ottone III le concedesse il dominio di Este e di altri luoghi vicini, senza ch’ella per altro vi stabilisse tosto dimora. Fu Alberto-Azzo II che dopo la morte di Arrigo III vi fermò la sua stanza, e che questa città si levò allora dall’abbietta condizione in cui la gittarono le passate vicissitudini. Vi sorse il palazzo della famiglia dominante a poca distanza dal fiume che allora correva diritto, il castello e la rocca senza che la terra fosse circondata di mura e di terrapieni; opere tutte ingoiate dall’onda del tempo.

Alcuni documenti del secondo duodecimo ci traggono a stimare che, sebbene i signori d’Este ne tenessero il freno pure il popolo formasse comunità rappresentata dai consoli, i quali presso il dominatore della terra esercitavano l’ufficio stesso che da poi presso il podestà trattando gl’interessi del comune. I signori d’Este erano indipendenti da ogni giurisdizione tranne la sovranità degl’imperadori da cui ebbero insieme col feudo il titolo di marchesi; la più antica manifestazione di questo titolo vedesi in un privilegio dell’imperadore Federico dell’anno 1165. E qui si avverta che i marchesi d’Este hanno i principii comuni coi duchi di Baviera e di Brunswich, i quali per ragioni di retaggi femminili passati dall’Italia in Alemagna continuarono lungo tempo ad avere diritti su d’Este e sui paesi di questo dominio, finché lo rinunciarono con vincolo feudale ai marchesi nella metà del duodecimo secolo. Di que’ tempi cominciò Este ad afforzarsi di mura e di terrapieni muniti di torrioni e di torricelle; ebbe quattro porte, e nei primi anni del secolo decimoquinto si alzarono in giro sopra i terrapieni le mura che in buona parte si mantengono ancora.

La giurisdizione dei marchesi estensi era di doppia maniera: alcuni diritti li riconoscevano dall’imperio, come quelli sulle paludi, sui fiumi, sulle strade; altri erano in parte di loro ragione, in parte della comunità, cioè i beni comunali nei monti, nelle pianure e nei boschi, di guisa che antico è il possesso della comunità estense, nei suoi averi. I sapientes o i consiglieri amministravano la giustizia; tenevano i loro placiti nel palazzo publico; il consiglio componevasi di sessanta cittadini, poi di quarantaotto: i Consoli erano i capi del comune.

Marchesella, della famiglia Adelardi conti di Ferrara, promessa in isposa ad Azzolino d’Este valse ai signori Estensi il dominio di quella Città, ove tenne il campo quella illustre stirpe di cui il ferrarese Omero non ne vedea verun’altra.

"... più gloriosa in pace o in guerra
"Né che sua nobiltade abbia più lustri
"Servata..."

quella famiglia della quale la discinta e scalza Melissa nell’antica e memorabile grotta del savio Merlino predisse a Bradamante i suoi valorosi nipoti; futuro ornamento d’Italia. Ché da Este nomossi chi pose il proprio valore contro l’ultimo dei Longobardi dominatori in Italia e gli fece mordere il dito della mutata fede verso il pontefice. Di qua si chiamò quell’“Onor dell’arme e del paese esperio„

Ugo

“Che ai superbi roman l’orgoglio emunse„

Falco

“Che dié alla casa di Sansogna mano„

ed il secondo Azzo co’ due suoi figliuoli di cui l’uno fatto sposo a Matilde ebbe

“Quasi di mezza Italia in dote il regno„

mentre la mercè dell’altro

“...del sangue tedesco orribil guazzo
“Parma vedrà per tutto il campo aprico”:

degni ambidue di avere quale a figlio, quale a nipote quel Bertoldo

“...che avrà l’onore opimo
“D’aver la chiesa dalle man riscossa
“Dell’empio Federico Barbarossa„.

Oltre a’ quali Este può vantare quasi madre, perché suggellato del suo nome, un eletto drappello di tanti altri generosi discendenti fatti illustri nelle italiche storie, quando vestiti di ducal manto, quando imprimendo

“Del purpureo cappel la sacra chioma„

ora intenti ad asciugare le piaghe dell’afflitta Italia, ed a volgerne in riso il pianto; ora fruenti il premio delle perpetrate vittorie

“E di grandezza d’animo e di fede
“E di virtù miglior che gemme ed auro„.

Meritevoli principi che accrebbero al bel dominio

“Reggio giocondo, e Modena feroce...
“E con maggior fermezza Adria che valse
“Da sé nomar le indomite acque salse„

e che mentre avevano a trastullo

“Sudar nel ferro e travagliarsi in guerra„

sapevano all’uopo

“Chiudere Marte ove non veggia luce,
“E stringere al furor le mani al dorso„

e far la città

“...con muro e fossa
“Meglio capace a’ cittadini sui„

ed il fraterno vincolo volgere a strumento non delle solite cortigianesche rivalità, sebbene d’amore; onde Alfonso ed Ippolito

“...quai l’antica fama suole
“Narrar dei figli del Tindareo cigno,
“Che alternamente si privan del sole
“Per trar l’un l’altro dell’aer maligno,
“Sarà ciascuno d’essi e pronto e forte
“L’altro a salvar con sua perpetua morte
„ (1)

Campeggiavano gli Estensi tra le più ragguardevoli famiglie d’Italia, quando nel secolo XIII anche a Padova, come nelle altre città italiane, per la risentitasi dignità dell’uomo, per la ingagliardita prontezza degli animi fatti attuosi, pel fervere delle industrie, per l’avvicendarsi dei commercii, per l’annestamento di parecchie famiglie nobili all’ordine popolano, nonché per l’abbassamento della preminenza ecclesiastica ed imperiale, il popolo si tolse al vecchio torpore. Di qua uno straordinario movimento d’intelligenza, un desiderio universale del meglio, un sentimento di felicità, a cui era misura non la dolcezza del riposo ma l’energia degli spiriti, e la vicendevole partecipazione alla sovranità del paese: quindi il popolo fatto radice a germinare ogni ramo di possanza politica, quindi nuovi regolamenti, nuovo stato e la deliberata volontà di allargarne i termini. Ecco pertanto i Padovani l’anno 1213 pretendere diritti di giurisdizione su d’Este, seguirne accerrima lotta, sbattuto il paese e Aldobrandino costretto a cedere, a tener Este sotto l’infeudazione di Padova e ad obbligarsi di prendere la cittadinanza padovana; lo che importava federarsi e in pari tempo sommettersi alla vicina città. Se non che tra per due concessioni di Federico II e per lo scadimento della republica padovana sotto la tirannide di Eccelino, i signori d’Este rinfrancarono la loro giurisdizione, e quando Padova tornò a libero reggimento concesse loro ogni facoltà che potesse avere il comune di Padova sulle terre contese, obbligando per altro i marchesi ad alcune dipendenze di soggezione.

Intanto Padova andò a mano a mano accrescendo la sua influenza su d’Este, e l’anno 1294 perdettero interamente i marchesi il dominio d’Este per la guerra che mossero loro i Padovani, nella quale caddero molte castella e la rocca medesima d’Este, che fu poi rifabricata l’anno 1243 da Ubertino Carrarese. Este perdette in questa guisa ogni mostra di Governo proprio, come intervenne a tutti i minori italici municipii, che assaliti dalle vicine città ne divennero meglio sudditi che alleati, contribuendo per tal modo ad una meno sceverata politica rappresentanza in Italia. Federazione e soggezione lacrimabili a quanti ne portavano il peso, ma pur feconda di largo frutto all’occhio di chi consideri come da codesta dependenza dei municipii minori, e dalla aggregazione dei nobili territoriali alle maggiori città siasi originato quel vigore di spiriti e quel ribocco di vita che innalzarono l’Italia sovra tutte le nazioni a maestra di civiltà. Così questo ribocco di vita non avesse logorate le sue l’orze in una dissennata foga di parteggiamenti e corrucci, così le riottose città non avessero sentito il bisogno fatale di affidare ad un capo politico la suprema direzione della cosa publica, né si fossero avvezzate alla fiacca inerzia del lasciarsi condurre.

Allora non più consoli, non più podestà, ma capitani del popolo, ma signori che accrescevano il proprio potere colla rovina del popolare che via via lo estendevano sulle vicine cittadi, che talvolta lo roboravano di confiscazioni a danno dei ribellati, e che per tal modo padroneggiavano i soggetti con baldanza aristocratica, con dispotismo militare, null’altro di republicano concedendo all’amministrazione civile, tranne la illusione delle forme. Da ciò la oppressione, la violenza, il popolo sparire dalla scena del dramma sociale e per colmo di maledizione codesti capitani codesti signori, montare in alto, gelosi, superbi e forti abbastanza da impedire a ciascuno fra loro (solo conforto che rimaneva ai tiranneggiati) la universale signoria dell’Italia. Pertanto Este vide allora pareggiata la sua alla condizione di Padova; città serve ambedue quando ai da Carrara, quando agli Scaligeri, poi di nuovo ai signori dal Carro, e finalmente (quantunque Este più tardi che non fu Padova) a quella accorta Republica che non soddisfa del naturale suo dominio sui mari, rivolse le cupidigie anche ai conquisti di terra, e come le venne meno il bisogno di antemurale, contro il biscione lombardo aizzò fra loro i vicini principi a rodersi con vicendevole rabbia ed a farsi materia di una vittoria in cui l’onore non fu pari al profitto.

Dicemmo che il carrarese Ubertino murò sull’alto de monte una fortezza seguendo il costume di que’ dominatori che in tal guisa avvertivano i vinti della lor soggezione. Le torri che ancora si veggono appartengono a codesta costruzione, perché le più antiche furono distrutte dalla republica padovana quando insignorivasi d’Este. Cotali avanzi del carrarese dominio sono eloquente parola alla imaginazione che sa rifabricarvi di tratto i ponti, le cateratte, le bertesche, i battifoli le feritorie, gli spaldi, le merlature che ti raffigura i cento accorrenti a cercarvi ospitalità e sicurezza, che t’imbandisce le mense apprestate da irta ma sincera liberalità, che ti rinnova al pensiero il fremito dei corrucci, i giuramenti e le vendette, il contrasto fra uomini vogliosi di aggravare il giogo, ed altri deliberati di scuoterlo.

Mi sia data venia se le storiche vicende d’Este e gli avanzi della sua antichità mi tennero lungamente lontano dai nostri dì. Este decadde, è vero, dalla sua antica splendidezza, ma conserva ancora di che allettare lo sguardo del passeggere. La chiesa arcipretale costrutta ad ellisse rinserra bellissimi altari marmorei, fra i quali è specialmente degno di nota quello del ss. Sacramento ed il maggiore foggiato alla romana: nel coro vuolsi ammirare s. Tecla dipinta dal Tiepoletto nell’atto di chiedere a Dio la liberazione della Pestilenza avvenuta l’anno 1480; e nella sacrestia un san Gaetano opera del medesimo autore. S. Maria delle Grazie, chiesa parrocchiale, soverchia l’altra di ampiezza, e presenta simmetriche proporzioni non senza eleganza in qualche altare, vi si vede il martirio di san Sebastiano condotto dal Galfitti. In santa Maria delle Consolazioni è l’imagine di Nostra Donna uscita dal pennello di Cima da Conegliano: la chiesa di santo Stefano ha pure una Madonna del cav. Liberi, e l’altra di san Martino il Martirio di san Lorenzo della scuola del Tintoretto. Anche il tempio della Beata Vergine della Salute di forma rotonda e di buon disegno merita la visita del forestiere; come fra i non pochi oratorii, spicca di merito quello de’ ss. Giacomo e Filippo Neri.

La caserma erariale, altra volta convento dei padri Francescani, è di così svelto disegno che ingenerò in alcuni il falso avviso di tenerlo per palladiano. Il teatro ricostrutto sulle ceneri dell’antecedente ed aperto l’anno 1835 di giusti limiti acconci all’uopo del paese, è ravvivato dalle tinte dell’Orsi con figure del Santi.

Gli abitanti d’Este passano i 10.000 e li governa un Commissariato distrettuale ed una Pretura di prima classe. Este ha un Uffizio idraulico diretto da un ingegnere in capo a cui è affidato un Circondario idraulico che comprende tutta la sinistra dell’Adige e il corso delle aque fra questo fiume, il canale di Pontelongo ed i colli euganei. Una Congregazione municipale rappresenta la città; ed un Ispettorato distrettuale scolastico vi soprantende alla educazione de’ giovanetti, che trovano ammaestramento in un publico ginnasio dotato di un collegio convitto a spendio del Comune. Provveggono ai primi insegnamenti di amendue i sessi le scuole elementari, di cui le maschili giovano a tutte e tre le classi, mentre una più popolana mira alla sola prima classe; aggiungi altre scuole private: delle quali utilissime istituzioni il merito principale è da riferire al nob. Sig. Vincenzo Fracanzani che tenne per più anni le redini del Municipio. Ed è la mercé di questo solertissimo cittadino che Este possiede un Museo raccolto da lui con illustre vicenda di patrio amore e di sapiente diligenza, ed illustrato dall’ab. professor Furlanetto con quella dovizia di dottrina che meritamente lo innalza fra i più rinomati moderni coltivatori delle archeologiche discipline. Sonvi all’incirca 120 lapidi, parecchie delle quali appartengono a Roma republicana, ed altre a Roma imperiale e da cui trasse profitto la latinità arricchendosi di qualche vocabolo nuovo; ma ciò che forse dà maggior lustro a quella collezione è una lapide rinvenuta sul monte di Venda posta da L. Cecilio proconsole delle Gallie a indicare il termine fra gli Atestini e i Padovani: il celebre numismatico Borghesi l'ascrive a quel L. Cecilio Metello Calvo che fu consolo nell’anno 612 di Roma, e proconsolo della Gallia Cisalpina.

Le molte e svariate sciagure alle quali è dannata l’umanità trovano in Este provvedimento e conforto. Il Monte di Pietà, solidissimo e bene assestato edifizio, soccorre all’urgente bisogno dei cittadini e dispensa dotazioni a donzelle. Lo spedale civile arricchito, non hanno molti anni, della sostanza lasciatagli per disposizione testamentaria di mons. Nicolò Scarabello sopperisce all’uopo di non pochi infermi; ed un asilo ai vecchi privi di alimento e di tetto potrà fra non molto ricettarne buon numero mercé le vigili cure di apposita commissione e la liberalità dei benefattori.

Le quali tutte istituzioni di benefico intcndimento diverso manifestano apertamente la progressiva civiltà del paese, alla quale porgono alimento e sostegno i nervi più principali della comune ricchezza, l’agricoltura e l’industria. Discorri il piano di quel territorio e ci vedrai farvi a prova le meglio ubertose ricolte di che si ammantino i nostri campi; dovizia di cereali, abbondanza di canape, ampii tratti di spiche che biondeggiano all’alternato bacio di aqua tranquilla, succosa pompa di caduca e di perenne verzura, arra non dubbia alla frequente prosperità de’ bovili, e quella più precocemente matura che dalle ben composte braccia dell’albero, a noi venuto di Persia, ci dà promessa del principale nostro provento tramutando in serici filamenti per opera d’ingegnosissimo vermicello le sue feconde fibrille. Che se fai passo a quei monti, li vedi festanti per elette e copiose vendemmie, confortati dall’ombra pacifica di fecondi oliveti, abbelliti dalle tinte diverse di saporitissime frutta, donde al sollecito colligiario soddisfazione all’uopo della famiglia e ragione di domestico lucro. Ché alla diligenza del vigile agricoltore noti cede l’operosità delle industrie e dei traffichi: a non dire di alcune altre minori, le fabriche di stoviglie in maiolica ed il lavorio delle corde profittano al paese, mentre il canale da cui Este è bagnata favorisce in parte l’attuosità dei commercii: a quel mercato settimanale vedi accorrenza di genti, copia di animali e di biade, dal cui prezzo gli altri finitimi prendono norma e misura. Avventurosa pertanto la città d’Este che allo splendore di antica origine accoppia onorevole vanto di storiche vicissitudini, lustro di nome che fra gl’italici maggioreggia, provvidenza di utili istituzioni, maniere diverse di comune agiatezza, e a tutti questi pregi corona, la letizia del sito, perché intorniata da bellissimi colli con prospettive di amenissime ville e di ben locati paeselli, ove alla tortuosità delle valli si alterna la nudità dei dirupi, alla tenebria dei macchioni la lucente graduazione di un verde vario e intrarrotto; e sfondi che s’aprono, e dossi che si accavallano, e chine che mitemente discendono, e freschezza di aere, e trasparenza di cielo, e guardatura di sole, liberale ministro di giocondità, di salute, di vita.

Giovanni CITTADELLA

(1) Tutti i versi citati sono tolti dal canto III dell’Orlando furioso. - Per ciò che riguarda le notizie storiche vedi Alessi, Ricerche storico-critiche delle antichità d’Este. Padova 1776.

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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