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MONSELICE

Trasse il nome dalle selci della rupe su ci si fabbricò questo castello antichissimo. Difeso dall’erta scoscesa, dai burroni e dal muro eretto intorno intorno a più cinte a pié della roccia, durò contro l’impeto di Alboino re dei Longobardi e ne fermò il passo che aveva vittoriosamente calcate con orme di fuoco e di sangue Vicenza, Verona ed altre città della Venezia, da Padova in fuori. Cadde poi nelle mani di Agilulfo. Dalle scarse notizie che arrivarono a noi di quegli scuri giorni, sembra che non pochi de’ Padovani dalla patria distrutta qui riparassero. Donde venne, che Monselice come capoluogo di ampio territorio e come principale a Padova stessa allora si riguardasse. Lo dimostra un contratto dell’anno 950 conservato nel nostro archivio capitolare, nel quale schiettamente si dice che Padova sta nella giurisdizione di Monselice. I documenti dei secoli ottavo, nono e decimo qualificano Monselice come centro del circostante contado; e i posteriori in vece lo dinotano col titolo minore di giudicheria. E prima e poi gli si concede per altro sempre il nome di città; né ci gravi il credere che in que’ tempi e per le idee di que’ tempi lo meritasse. Nel secolo decimo, secondo Muratori, e solo nell’undecimo, secondo altri, fu Monselice dato in feudo alla illustre casa che nel seguente secolo e proprio nel 1165 pigliò il nome da Este, dove anche prima che si dicesse Estense, tenne soggiorno e corte con onta e danno dello scaduto Monselice. Il fermento delle italiche città collegate contro lo imperatore Federico I non lasciò i marchesi d’Este possessori di Monselice tolto ad essi dalla repubblica padovana, la quale entrata primiera nell’ardimento della lega lombarda ne partì, coi perigli e colle glorie, anche i frutti. D’allora in poi ebbe con Padova comuni le sorti; e perciò fu governato da rettori padovani, turbato dalle fazioni della capitale, danneggiato dalle sue frequenti guerre municipali, oppresso dalla tirannide di Eccelino da Romano, compreso nella signoria dei Carraresi, e finalmente ingoiato con Padova dall’aristocrazia veneziana.
La veneta famiglia Duodo venne poscia in privata proprietà di tutta quella superficie del monte che sta nell’ambito delle antiche fortificazioni. Eccetto queste, tutto ciò che si vede sulla rocca la è opera dei Duodo. Dietro disegno dello Scamozzi si edificò il palazzo, le logge che lo circondano, la chiesa che vi sta accanto, e le sei chiesette disposte sulla china fregiate dai dipinti di Jacopo Palma il giovane e del bavarese Loth, nelle quali si vollero ricordare le sette basiliche di Roma, e per ciò furono intitolate ai medesimi santi e privilegiate con bolla di Paolo V delle medesimissime spirituali prerogative. La famiglia Duodo per cura costantemente tramandata di generazione in generazione si studiò dì impreziosire queste chiese con gran copia dei resti mortali di santi e di martiri ottenuti dalle catacombe di Roma; e le memorie storiche sulla terra di Monselice di Gaetano Cognolato contengono intorno a codeste venerabili reliquie tutte quelle prove e notizie che possono dai più teneri del culto desiderarsi. Le rovinate fortificazioni che intorniano le radici e sopracorrono al dorso della roccia, si dissero da creduli cronisti, anteriori per fino alla venuta del Troiano edificatore di Padova. Ad altri bastò di nobilitarle con una vetustà meno trasecolante col farle credere opera dei Romani, dei Goti o almeno dei Longobardi. Noi consigliamo il lettore a quietarsi nell’opinione del nostro eruditissimo collaboratore il Selvatico, che nel «Giornale di Belle Arti» (anno 1 n. 5) mostrò con buone ragioni quelle costrutture appartenere al secolo decimoterzo.
Nello stesso pregevole scritto è una particolareggiata illustrazione di altro edificio antico il quale torreggia in falda alla roccia quadrato, massiccio, bruno, incoronato di merli; ma guasto per vecchiezza, per abbandono, per mutilazioni, giunte e mutamenti operativi della famiglia Marcello che lo abitò negli ultimi secoli, e volle in qualche modo acconciarlo a spartimenti ed a comodi ignoti all’età austera in cui fu murato. Serba non per tanto ancora dello straordinario, del misterioso, del grande; né può essere amatore dell’antichità o delle arti, che gli consenta uno sguardo solo e passi oltre. La genterella del luogo dice quel palazzo fabbricato ed abitato dal tiranno Ecelino. Codesta credenza ha origine nel terrore cagionato dall’aspetto di una casa che appartiene a quell’epoca bella pei romanzieri, ma calamitosa ai popoli, nella quale l’architettura servì ai tradimenti, alle vendette, alle libidini e all’impunità del feudalismo oltracotato e cruento. Si osservino nel di fuori di questa magione fortificata i molti oggetti designati ad imbertescarla; nell’interno quelle scalette clandestine praticate nello spessore delle muraglie ed ascendenti forse fino a’ merli del tetto; nel piano superiore un camino gigantesco che presenta quasi apparenza di fortilizio in analogia al gusto feroce di un tempo, in cui piaceva alle genti irte di ferro vedersi ogni dove d’attorno le rimembranze e le imagini della guerra. Il viaggiatore che si piace delle arti potrà esilarare il pensiero abbuiato dalle riminiscenze di età nebulose ed imbarbarite, conducendosi al campestre soggiorno del cultissimo cittadino padovano sig. Giambattista Cromer, dove in mezzo alla frescura delle ombre e delle acque in un’abitazione comoda ed elegante ammirerà la seconda opera del possagnese che rimenò la scultura sulla via del vero e del bello. È un Esculapio di grandezza eccedente alquanto le dimensioni naturali, atteggiato a dialogo, nudo dai lembi in fuori coperti di ben panneggiato indumento sostenuto da fettuccia ad armacollo. Ha fisionomia grave che arieggia di ritratto; ma l’intendimento di effigiare Esculapio viene schiarato dagli emblemi che Dio della medicina, che si veggono in bassorilievo sur un cippo postogli a canto. Semplicità, compostezza, posa naturale, pieghe vere, studio di muscoli senza affettature porgono in questo secondo lavoro di tanto scarpello un monumento importante alla storia dell’arte.
Monselice al presente raccoglie circa 6.000 abitanti; è capoluogo del distretto, residenza di una giudicatura di prima istanza e di un regio commissario. Non manca ad esso qualche doviziosa famiglia e qualche istituto di beneficenza e d’istruzione.
Nel monte sul quale stanno i rimasugli delle antiche fortificazioni è una fra le molte lapidicine che sono in grembo dei colli euganei. La pietra che se ne cava si chiama dagli scienziati "trachite" e dal volgo masegna. Di questa pietra quella di preferenza si lavora e s’impiega alle costrutture, la quale più abbonda di feldispato vetroso, perché più trattabile allo scarpello e non affatto priva di lucentezza. Della trachite de’ colli euganei, degli altri minerali che si trovano in essi e di tutto ciò che può destare la curiosità, attrarre l’attenzione, fermare le considerazioni, invitare le congetture del geologo, trattò con sapiente diligenza il chiarissimo naturalista Nicolò da Rio nell’opera intitolata: Orittologia euganea. Codesto cavaliere, onore della sua patria, meritò ancora più della medesima con sì fatto lavoro che, frutto di lunghi studii, porge una compiuta idea della più eletta parte del padovano.
A chi da Monselice pocede verso Este si fa ben tosto dinanzi la collina di Merendole notabile e per le ville che biancheggiano sovr’essa e quasi si specchiano nel fiume opposto; e perché a differenza di quasi tutti i monti della catena euganea, questo si compone tutto di calcaria bianca, le cui stratificazioni si manifestano nelle molte cave che in antico vi si praticarono. In vece in quasi tutti gli altri le stratificazioni della calcaria si addossano alla trachite, che poi nelle maggiori altezze sporge fuori disimpacciata dall’involucro e rileva da sola.
Altro colle della stessa natura è il vicino Montebuso che sta non lunge sulla medesima via, e che si vede essere stato prodotto dal sollevamento del terreno in alquanti culmini disposti a giro; donde un vano fra loro, e da questo accidente l’appellativo buso. Qui fu una delle molte castella che torreggiavano un tempo o in cima o in falda agli euganei; e codesto appartenne alla potente famiglia de’ Macaruffi, la quale tenne a petto dei prevalenti Carraresi quella stessa robusta ma inutile opposizione, che gli Albizzi e gli Strozzi, se lice il paragone, verso dei Medici in Firenze.

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A. Cittadella-Vigodarzere Guida di Padova 1842

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