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1846, di Teodoro ZACCO

CARRARA S. GIORGIO E CARRARA S. STEFANO

Discosto di Padova sette miglia, al suo mezzogiorno e presso Battaglia, è Carrara.

In origine il territorio attuale formava una sola Comunità e si appellava col semplice nome collettivo di Carrara. Ora il territorio è diviso in due parti, ambedue denominate Carrara, ma coll’aggiunto all’una di s. Giorgio, e di s. Stefano all’altra. Noi qui consideriamo quel paese qual era in antico, e intendiamo, parlandone, di comprendere insieme il territorio delle due sezioni sotto il nome unico di Carrara.

Ella fu un tempo grossa terra, irta di torricche, tra cui una primeggiavane di maschia struttura, che quasi gigante soprastava minacciando sterminio a chi osato avesse di impadronirsene. Castello perciò di Carrara chiamossi nel medio evo quella parte di territorio che ora Carrara s. Giorgio si nomina. L’Imperatore Berengario II infeudò della rocca e della terra stessa Gomberto, d’origine longobarda e pro’ cavaliero, il quale, a detta degli storici, fu il primo che in Padova mettesse fondamento alla illustre sua discendenza. Diffatti pel Castello di Carrara, che appartenevagli per imperiale investitura, fu de’ Proceri e Magnati di Padova, ed in appresso i suoi da Carrara si appellarono. Forse l’origine di quel castello rimontava alla calata degli Ungari in Italia, poiché appunto in quell’epoca avvenutisi i popoli che quei barbari non ardivano assalire le munizioni, circondarono le città d’alte e robuste mura, e nelle villate, e ne’ centri abitati eressero bastioni e ridotti, dei quali uno ampio assai, quanto bastasse al bisogno d’una o più ville, serviva in caso d’inimica irruzione a raccogliervi e proteggervi le mandre, le sostanze e le cose più preziose e più necessarie alla vita di quegli agricoli abitanti. I signori de’ feudi imitarono l’esempio nelle proprie giurisdizioni, scegliendo i luoghi per natura meno accessibili. Di che i comignoli de’ nostri Colli coronati di merli fin da quel tempo additarono il soggiorno del signorotto, disposto sempre alla più valida difesa.

Enrico IV confermava la giurisdizione di Carrara alla famiglia di questo nome (1) e col diploma impartiva protezione a tutto che ai Carraresi si partenesse in beni così di allodio, che di feudo, o vassallaggio, livelli, servi ed armigeri (2). Federigo Barbarossa principe, come ognuno ben sa, di spiriti alteri, d’animo marziale, di fino accorgimento, misto di molle virtù e di notabili vizii, che nel 1160 involto in doppia lotta contro la Chiesa e contro i Milanesi e d’altronde scemato di forze, carezzava l’idea di allearsi a potenti famiglie, con diploma onorifico datato da Pontremoli, ov’era a stanza, accordò pur egli la sua imperiale protezione a Marsilio da Carrara e ai legittimi suoi discendenti, nonché al loro castello, minacciando pene gravissime a chiunque osato avesse di molestare il predetto Marsilio o gli uomini a lui soggetti.

Questo Castello però a ben gravi vicissitudini soggiaque, e segnatamente nel 1165, quando perseguendo i Padovani, come parziale di Federico, Jacopino da Carrara, marito a quella Speronella rapita dal conte Pagano, qui vicario imperiale, il popolo sollevato corse a Carrara, distrusse quel ben munito castello, atterrò le case de’ vassalli, incendiò le messi e gli abituri de’ coloni, e manomise ogni cosa che fosse dei Carraresi. Aquetati i romori la potente carrarese famiglia si adoperò a ristorare i danni recati dalla violenza popolare, feroce sempre negli odii suoi, e indomabile se istigata e sospinta dal mal talento dei maggiorenti stessi della città. Risorsero allora e le bastite e le torri di Carrara e i più accessibili siti con saldo girone di grosse mura provvidamente munironsi.

Toccato l’anno 1241 quel Castello cadde in potere del podestà di Padova, perché Ezzelino, nome che in sé racchiude una storia di sangue e di delitti, volle per sé la salda rocca di Carrara, e Giacomo, che ne era il padrone, obbediva al comando dell’immane tiranno, e la cedeva. Avutala, colui la distruggeva dai fondamenti (3) né sembra che rifabricata fosse più mai (4).

Chi a Carrara s. Giorgio ora si reca, invano cerca un avanzo che dimostri l’antica condizione di quella terra. Solo qualche pietra impiegata in que’ sparsi tugurii, e dissepolta dal vomere che solca il terreno, ove forse fu un tempo il celebrato Castello, e per la sua forma, e per la sua mole fa credere che a fabriche di ben alta importanza abbia un tempo servito. Tutto ora a s. Giorgio è moderno. La parrocchiale stessa, intitolata a quel santo, è un tempio di recente costruzione.

***

Si devii alcun poco il cammino dal centro di quel paese, e ad assai lieve distanza si troverà Carrara s. Stefano, ben conosciuta per la rinomata Abazia, tema d’interessante storica memoria, publicata nel 1801 coi tipi dello Zatta dal padovano nostro abate Ceoldo. Siccome in prossimità dell’Abazia si fecero degli scavi al tempo ancora del Tommasini e del Grutero; siccome si rinvennero ed iscrizioni latine, e tegole colla marca del Figulino, ed avanzi di statue, e colombarii con urne cinerarie di terra cotta, così quei due dotti concorsero nell’opinione che in quel sito all’epoca romana esservi dovesse un fabbricato considerevole. Un macigno scoperto nel 1800 colle lettere romane C. DOMITIUS FIRMUS fe’ persuasi gli archeologi che stato fosse quel luogo proprietà della famiglia Domizia, la quale fra le nostre annoveravasi a’ tempi più rimoti.

Fondatore dell’Abazia vuolsi, e dal Brunacci e dall’Orsato e dal Gennari, Litolfo, figlio a quel Gomberto che ottenne di essere infeudato del Castello di Carrara dallo imperatore Berengario II. Diffatti da una carta dell’anno 1027 mese di luglio, scritta in Carrara e rogata da certo notaio Isnardo, esistente in autentico nel nostro Codice carrarese, dimostra che il predetto Litolfo donò il fondo su cui voleva eretta l’Abazia, e la dotò con quindici ubertose campagne, le migliori ch’ei possedeva.

È cosa già certa che il primo monastero, che si fondò nel territorio dell’attuale nostra Provincia fuori di Padova, quello egli è di Carrara s. Stefano. Che la chiesa poi del Cenobio esistesse anche prima del 1027, lo si evinse dallo stesso citato rogito della donazione fatta da Litolfo, imperocché l’atto stesso in quella Chiesa appunto si celebrò. E la Chiesa attuale, che per il genere della sua architettura appartiene piuttosto al terzodecimo secolo, prova che non poté esser la stessa in cui si celebrava quel rogito.

È a credersi piuttosto quella essere stata che dei santi Pietro e Andrea si appellava ai tempi del Tommasini, di cui non v’ha ora che un rimasuglio in prossimità alla parrocchiale di s. Stefano, ed una pianta che ne dimostra la forma e la dimensione fatta rilevare e, in quella sua Storia dell’Abazia, pubblicata dal precitato abate Ceoldo. Come non istupirsi che in una età violenta per sete di tirannico dominio, abbrutita per barbarica condizione sociale, insozzata di sangue e di lascivie, si scorgessero a fronte delitti ed atti generosi, opere d’animo efferato e di vangelica carità, orgie di dissolutezza e spirituali congregazioni, furti, ratti, stupri, assassinii, badie cenobii, asili, ospitali, che al fumo degli incendii, alle strida del dolore, alle vittime del tradimento e della vendetta, i profumi si mescessero degli incensi, i cantici della chiesa, la gioia e le benedizioni di chi in seno alla pietà trovato aveasi ricovero, riposo, pane e conforti? Ma le condizioni stesse di quella età valevano a sospingerne con violenza le passioni, a ingigantirne le idee le azioni di ogni genere modellate a quell’impulso oltrescendevano ogni misura, ed è appunto in quelle azioni che leggere noi possiamo manifesto il carattere degli uomini che vissero in quell’epoca.

Altre successive donazioni e di poderi e di opifizii e di argenti furon fatte all’Abazia dai discendenti del fondatore, poiché in quelle età calde di religioso fervore i ricchi e i potenti gareggiavano in opere di carità.

Per tal modo l’Abazia di Carrara divenne celebre e considerata, e gli abati in tanta potenza salirono che esercitavano giurisdizione assoluta sui dipendenti del monastero, e tenevano più volte all’anno i loro placiti, e ricevevano perfino giuramento di fedeltà dalla famiglia Carrarese.

Forse per porre argine e confine allo strabocchevole potere dell’abate di s. Stefano di Carrara, i vescovi diocesani sollecitarono per sé il giuspatronato sull’Abazia e il diritto dell’elezione dell’abate (5), e se l’ebbero dal Pontefice; cosicché in seguito di tempo concentrare poterono in loro colla spirituale anche la temporale autorità sul Monastero medesimo. Anche uno spedale pei pellegrini fondossi in prossimità della Chiesa abbaziale (6).

Il Monastero così ebbe feudi e vassalli. L’ ospizio pei pellegrini ebbe rendite e assegnati. I Carraresi doviziosi e potenti, carezzati dagli imperatori, oltre il privilegio di protezione pel Castello e per l’Abazia, quelli pure ottenevano del jus vitae et necis sui proprii vassalli, dell’esenzione pegli uomini del Monastero o della lor casa dalle publiche fazioni e dallo essere trascinati nei placiti, e di poter erigere mulini ed incassare senza decimazione l’ingente prodotto di tali opifizii.

Sia prova dell’alta rinomanza e considerazione in cui era salita l’Abazia di Carrara e della sua ricchezza il delegare che faceano di frequente i Papi l’Abate di quel monastero a giudice nelle cause ecclesiastiche di alto rilievo, il voto libero che dar doveva l’Abate stesso nella elezione dei vescovi della nostra città, il diritto che aveva di fungerne le veci quando la sede vacava (7), e di conferire durante tal tempo in qualità di naturale gran Cancelliere e Direttore principale della Università le lauree in ogni scienza, ed anche in teologia, e il possedere beni, chiese e priorati in altri stati, e perfino a Trecentola nel Bolognese (8).

Fin qui, cioè fino alla metà del secolo decimoterzo, volsero per l’Abazia di Carrara ben prospere le sorti. Ma il più esecrabile fra i tiranni, fattosi signore di Padova strascinando ai più crudeli supplizii la nobiltà, il clero, le vergini e le matrone, avido di appropriarsene le castella e le possessioni, portò, le sue mire cruente su quella Badia così ricca di fondi, su quella Chiesa così risplendente di arredi preziosi, e le volle sue. Imprigiona ad un tratto l’Abate, e n’è scellerato pretesto l’esser quegli parente di uno Scacco degli Offedrucci di Marostica, cui il tiranno aveva mozza la testa nel 1251 (9), reo solamente di aver ribattute amare parole scagliategli contro da un vile satellite di quel disumano, scellerato strumento di un’empia volontà. Il patrimonio e le suppellettili del cenobio passarono al fisco del tiranno (10). Questo fu colpo fatale per la Abazia scagliato da colui che bona Episcopatum, Abbatiarum, Canonicatum, et fere omnium Ecclesiarum, in suis sceleratis operibus consumabat (11).

Allorché in Soncino, dopo undici giorni di prigionia, rabbiosamente stracciando le fasciature delle sue ferite, moriva qual era vissuto il tiranno di queste contrade, tutta Italia racconsolossi. I beni tolti vennero restituiti, riaperte le Chiese profanate; i monasteri distrutti con incredibile sollecitudine riedificati.

Principi i Carraresi di Padova, e sempre generosi verso la loro prediletta Abbazia, nella di cui Chiesa preferivano esser sepolti, o con nuove donazioni in vita, o con pingui legati in morte, al quasi primitivo splendore la ritornarono.

Ma quando sortì a’ Viniziani dopo venti mesi di assedio in cui soccombettero i più animosi, d’impossessarsi finalmente della nostra Città, perché la guarnigione era grandemente scemata dall’infuriare d’orribile pestilenza, che quattrocento vittime al giorno mieteva, e quei pochi che restavano alla difesa erano stremati dal lungo digiuno e dai continui assalti; quando i due Carraresi Francesco Novello e Francesco III di lui figlio tragittarono le venete lagune per avere con l’altro Carrarese Jacopo comune il carcere ed il supplizio; quando collo sterminio in somma della Carrarese dinastia e colla presa di Padova fortificaronsi i Viniziani nel nuovo dominio, e sbandeggiando i passionati pel cessato regime, dei loro averi confiscati impadronironsi, nonché d’ogni roba e scritture dei principi sventurati, anche l’Abazia di s. Stefano corse la rea sorte de’ suoi fondatori, e scese essa pure al fondo dell’avvilimento e della desolazione, sino a che fu totalmente distrutta.

A che lamentare dovremmo noi qui la scelleraggine di quei fatti se già universale e nuovo sempre rinasce l’orrore, solo che se ne ridesti memoria? Perché la colpa tanto alla lunga insolentì sul proprio misfatto! Tre principi Carraresi strozzati freddamente nelle segrete, solo perché la carcere, l’esiglio loro, lo spoglio, l’umiliazione, lo stento non erano sicuri mallevadori al possesso della rapita signoria. Si compì la feroce sentenza, ma un’altra ne scriveva Dio, e in adamante eterno la scrisse... L’Abazia di Carrara data in premio a quel traditore Agostino arciprete di Cittadella, quando aperse alla Republica, che tanto il vagheggiava, le porte di quel ben munito Castello (12). Quel celebrato Monastero divenuto così prezzo del sangue de’ suoi benefattori, de’ pii fondatori suoi. Coll’andare del tempo ridotta l’Abazia a Commenda. Le sue ricchezze, i suoi vasti poderi o manomessi, o trasmessi ad impinguare gli amici e parenti di qualche Commendatario o scialaquate in pompe, quanto pazze, riprovevoli. Soppresso l’Ospedale dei pellegrini. Spianati nel secolo XVI gli edifizii che il circondavano dalle bande Spagnuole ed Alemanne, che tutto quel tratto di ubertoso territorio a fuoco e a ruba mettevano, in frenate troppo tardi e cacciate ai confini dalle venete truppe. Finalmente nel 1769 per decreto del Senato soppressa pure la tanto celebrata Badia, interamente secolarizzata, e posti all’incanto i residui beni che le appartenevano. Tributo mai sempre di giusta lode sia reso a quell’onesto e pio sacerdote (13) il quale, dotato di generoso sentire, benché d’indole mite e paziente, tanto s’adoperò per la conservazione dei pochi monumenti pregevoli di antichità e di arte, i quali attualmente per la commendevole sua alacrità esistono nella Chiesa dell’Abazia, nella sagrestia, nel cimitero, e in quella casa che attualmente serve di abitazione a chi ha la cura d’anime di quel picciolo Comune.

Ristretta illustrazione ora offriremo di ciò che in quel sito attualmente è degno di osservazione.

La Chiesa di s. Stefano è di figura romboidale. Essa, il coro, ed il campanile quadrilatero che ha un totale in giro di piedi 64 ed un’altezza di 128, e che è sormontato da una cupola piramidale di pietra cotta, sembrano opere del secolo terzodecimo.

Una delle cose più osservabili in questo tempio, è l’altare maggiore, antica ara cristiana simile a quelle che vedevansi nel famoso altare d’oro della Ambrosiana descritta nel tomo III delle Antichità Longobardiche Milanesi (14), nonché dal Boldetti (15). Una gran mensa di marmo veronese, conosciuto fra noi sotto il nome di Biancon, vien sostenuta da un grosso pilastro isolato che stà nel mezzo. Invece di predella v’ha un semplice scaglione, su cui montar deve il celebrante. Questa antica semplicità è stranamente deformata dal moderno tabernacolo di marmo collocato nel centro della mensa, il quale per tal modo nasconde quella cavità principale, che nei primi secoli cristiani serbava le ossa dei martiri e dei confessori, e dava talvolta (tant’era spaziosa) asilo a qualche sciagurato cerco a morte. Puossi ritenere che quell’altare al sesto o settimo secolo dell’Era nostra appartenga, dappoiché a detta di Sozomeno (17) in quell’epoca nelle occidentali contrade si costrussero nel centro delle Absidi delle Chiese altari sostenuti o da due colonne, o da una sola centrale. Questo modo di costruire le are sacre cessò al principiare del duodecimo secolo. Degno di nota è il gruppo in argilla figurante la Pietà collocato sull’altare dei Corpus Domini creduto opera del rinomato Andrea Riccio.

Il mausoleo di Marsilio di Carrara secondo signore di Padova, che stà infisso al muro settentrionale della Chiesa, merita particolare attenzione. Sculto in basso-rilievo vedesi il detto Marsilio collocato sulla cassa mortuaria del suo monumento. La fronte del mausoleo in tre spartimenti dividesi. Quello di mezzo raffigura la Vergine col Bambino, a destra e a sinistra stanno li due santi Antonio e Benedetto. Agli angoli vedesi Nostra Donna, e l’Angelo annunziatore. La base dell’avello è di marmo d’Istria; il mausoleo di marmo di Carrara; di greco i due leoni che lo sorreggono appoggiati a due mensole di istriana. Il tempo corrose le dorature di cui offrono ancora qualche impronto la cimasa del sepolcro e l’iscrizione. A metà della Chiesa stà la sepoltura dei Carraresi, che avanti il 1300 venivano in quel tempio inumati. Un mosaico il cui centro ha per asse una pietra circolare di marmo rosso di Verona e che mostra cinque ruote da carro, delle quali la maggiore stà nel mezzo è il sigillo di quella tomba comune.

Sotto quasi la cantoria dell’organo vedesi un medaglione di marmo rappresentante in effigie Stefano da Carrara Vescovo di Padova figlio naturale di quel Francesco Novello, che nelle tenebrose carceri de’ Dieci finì i giorni suoi spettatore dell’eccidio dei figli e della ruina della sua casa. Questo medaglione che stava prima nella Cattedrale di Padova, venne nella Chiesa di s. Stefano trasportato nell’occasione in cui nel nostro Duomo rifabricossi la Capella della B. Vergine. All’interno del basso-rilievo leggonsi le seguenti parole: Stephan: de Carraria hic Praesulis Ymago MCCCCII. Nella grossezza poi della pietra stà circolarmente scolpita questa Epigrafe: Ymago Stephani de Carr: Filii: Magnifici D. D. Francisci D: Pad.

Uno degli antichi terminì che dividevano dal Veneziano il Carrarese Territorio lo si scorge in quel pilastro di pietra d’Istria, collocato al muro meridionale della Chiesa avente da un canto un Leone alato, e dall’altro una Croce col carro. Sulla fronte della Chiesa poi a diritta stà un’iscrizione Longobardica ricordante il giorno in cui avvenne la morte d’Ubertino III Principe di Padova e l’elezione di Marsilio Papafava da Carrara, per la corta taglia nominato Marsilietto, avvenuta appunto il 30 marzo 1345. Nella sagrestia, un s. Lorenzo ed una santa Vergine, un Redentore che porta la croce dipinti ambedue sulla tavola, e la Nostra Donna annunziata dall’Angelo dipinto in tela, son quadri non ispogli al certo di qualche merito. Veggonsi pure attaccati su quelle pareti due ritratti ad olio, l’uno rappresentante Taddea Ariosta moglie a Giacomo Papafava pro’ cavaliere, le di cui illustri azioni commemorate vengono dal Gattari (18) e l’altro figurante Silvio da Carrara Abbate di quel Monastero. Veggonsì pure quattro piccole medaglie di bronzo in cui stanno effigiati quattro Principi della cospicua casa Carrarese; cioè Jacopino, Jacopo il grande, Marsilio e Marsilietto; al rovescio della medaglia avente il ritratto di quest’ultimo scorgesi in grande rilievo lo stemma gentilizio dei da Carrara.

Per ultimo merita speciale esame l’antico sigillo Carrarese avente la Sfinge, l’Elmo e il Carro chiusi dalla seguente iscrizione: Franciscus de Carraria in hoc signo omnes munerat, nonché un picciol rame su cui stà incisa la pianta e lo spaccato dell’or distrutta sotterranea Chiesa di s. Andrea, situata un tempo, come dicemmo, in prossimità all’attuale di s. Stefano e demolita nel 1769 per ordine di chi se ne rendeva padrone comperando all’incanto i fabricati ed accessorii dell’antica Badia (19).

Presso dalla porta, fuori della Chiesa, furono collocate nel 1797 quelle due urne in pietra di Nanto, coperte presentemente con due lastre della stessa pietra per ognuna aventi il carro e le due F ai lati, nonché la seguente iscrizione: MCCCLXXVI de mense decembris jussum fuit per officiales Magnifici et Potentis Domini Francisci de Carraria Carrigerum Septimi Ducis Paduae hanc urnam fieri. Esistevano desse prima nel nostro castello di Padova, e sembra servissero d’abbeveratoio pe’ cavalli. Le due colonne innalzate l’una nel cimitero della Chiesa, l’altra fra la Chiesa e l’abitazione del parroco, appartenevano la prima all’antica distrutta Chiesa di s. Andrea e la seconda al portico che circondava il chiostro dell’Abazia. Queste al pari del pozzo di marmo istriano, fatto costruire da Marsilio di Carrara (20) che ora serve di base alla sopra ricordata colonna e che porta incisa la croce, arme della Città, e due cimieri col serpente, in un ad alcune ruote di carro, insegna del predetto signore di Padova furono, a cura e spese del benemerito ab. Ceoldo, ivi restituite e tolte di mano ad ingordi speculatori, che tali oggetti aquistavano o per mutilarli o per destinarli a vilissimi usi. Fu pure questo zelante prete generoso, sollecito e caldo d’amore per quei luoghi da lui prediletti, il quale volle nel muro orientale del medesimo cortile commessi dodici capitelli, che alla Chiesa vecchia appartenevano, i quali dalle forme loro doriche ioniche, corinzie, per quanto il consentivano le imperite mani dei loro scultori, provano il decadimento in cui era l’architettura avanti l’undecimo secolo.

Nel muro meridionale poi congegnata vedesi una lapide su cui stà scolpita la seguente iscrizione MCCCLXXIV Die XIII Iunii Patavii Sceptrum Qui Ten. Vere Carrigerum Franciscus Heros Septimus Constructor Hujus Fabricae. Il ricordo sculto in marmo al di sopra di questa lapide fa conoscere e dove prima trovavasi, e quando venne a Carrara s. Stefano trasportata. Vuolsi qui avvertire che Marsilio, fratello a Francesco dimorante a Venezia, in uno agli altri due Carraresi Nicolò e Bonifacio mossero al Signore di Padova congiura, la quale, sventati a tempo, fruttò dippoi un perpetuo carcere ai tre faziosi, due dei quali trassero il rimanente della lor vita nella forte rocca di Monselice. Quel Vere scritto nella succitata lapide sembra alludere al pericolo da cui era campato il principe Francesco.

Qualche urna cineraria, ed altre lapidi di poca importanza veggonsi infisse nelle muraglie della chiesa e del cimitero, tra cui una di marmo coll’iscrizione romana C. Domitiius Firmus già rammentata in principio di tal narrazione, ed altra ricordante il decesso di Beatrice Malfatti moglie di Egidio Gastaldione dei principi di Carrara.

Dell’antico splendore di quella illustre e celebrata Badia questi pochi avanzi rimangono, bastevoli però a provare come quel Monastero fosse uno de’ più cospicui dell’Italia nostra.

Belle ancora sono le due Carrare, sì perché giocondate dai prossimi colli, sì perché il suo territorio prospera di rigogliosa vegetazione, sì per quella collina vulcanica che solitaria soprasta, ed appartenente alla catena degli Euganei, celebre un tempo per la mostruosità de’ suoi funghi (31) e la quadrilatera torricella che in cima vi grandeggia da cui l’occhio intorno intorno prospetta un teatro di svariatissime scene sì per quelle tante reminiscenze che si risvegliano nel visitatore che dell’arti e della storia si piace, osservando ciò che resta e quale doveva essere quel luogo protetto, abbellito, fortificato da chi dominò tante città e castella ed eccitò, per la sua trasmodata potenza, l’invidia dei Visconti e degli Scaligeri e la gelosia della Veneta Republica.

Teodoro ZACCO

NOTE

(1) Gennari, Annali di Padova. Parte II pag. 113.
(2) Salomon. Agr. Patav. Inscript. pag. 387.
(3) Ongarel. lib. 2 e Rol. 1. 5.
(4) Roland. idem, e Verci Storia degli Ezzelini, vol. II. pag. 246.
(5) Brunacci. St. rns.
(6) Ceoldo, Memorie dell’Abazia di Carrara.
(7) Facciolati, Syntagm. prim. pag. 11.
(8) Tommasin. Gymnas. Pat. cap. 3, e Muratori, Diss. 65.
(9) Roland. tom. 8, Scrip. Rer. Ital.
(10) Antiquit. Ital. tom. 4.
(11) Monach. Patav. tom. 8, Scrip. Rer. Ital. col. 687.
(12) Gattari tom. 17, Script. Rer. Ital. col. 928.
(13) Il benemerito ab. Ceoldo, quello stesso che publicò le notizie sull’Abazia di Carrara.
(14) Dissert. 25.
(15) Boldetti - Osserv. sopra i Cimiterii ec. di R.
(16) Ughell. Ital. Sacr. Tom. IV.
(17) Hist. eccles. lib. IX, cap. I.
(18) Gattari, pag. 849 usque 910.
(19) Dobbiamo questa preziosa incisione al chiarissimo abate Ceoldo più volte ricordato.
(20) Brunacci. De Re Nummaria Patav. pag. 169.
(21) Veggasí l’interessante descrizione di quel monticello e dei suoi celebri funghi, scritta e publicata nel 1761 da Giovanni Marsilli, professore di Botanica, avente per titolo Fungi Carrariensis istoria ec. Egli ritiene che que’ funghi che tanto crescevano in volume da vincere in grandezza ogni altro fungo, del che stupirono Clusio, Bauhino, Haller, Batarra, non si generassero come supponevasi per mezzo della seminagione, ma che fossero una specie di pianta perenne, o di viva radice, che ogni anno con nuovi, tenuissimi, intrecciati, invisibili capillamenti a poca profondità del suolo pullulasse e producesse numerosissimi germi. Ascrive egli la specie di quel fungo al genere Lycoperdon Alpinum maximum cortice lacero del Tournefort.

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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