euganeinews
in rete dal 1996

   

1846, di Antonio BERTI

IL CATAJO

GLI OBIZI

La famiglia degli Obizi è delle poche non famose per parricidii, per violente tirannidi, per troppo furibondi odii di parte. Venuta di stranio paese, come altre molte, fra noi ci visse lungamente, s’illustrò nelle armi, v’ebbe grande potenza e non lasciò nome esecrato. Cotesto è più grande elogio che forse non paia, ove si ponga mente alle discordie nostre vergognose, alle tradite libertà, alle oppressioni lunghe, alle miserie infinite.

(1007) Vogliono i cronisti che nel mille e sette due fratelli di chiara stirpe scendessero di Borgogna in Italia coll’imperatore Arrigo II ad aiutarvi papa Benedetto VIII, cui i mal domi Romani niegavano sommissione. Ignorasi se calassero volontarii o scacciati; solo raccontasi che si nominavano Frisco e Obicione. Riposto in seggio il pontefice, tolta parte della Puglia ai Greci e ai Saraceni, l’imperatore costretto da nuove turbolenze a ritornarsene in Alemagna lasciò i due fratelli con grossa mano di fanti e di cavalieri suoi vicarii, l’uno in Genova, l’altro nel litorale ligure-etrusco, acciocché, come accenna il diploma, la città e le terre difendessero dalle incursioni dei Saraceni che tutto quel mare e le riviere depredavano corseggiando.

(1010) Frisco stabilitosi in Genova diede origine alla famiglia Frisca, o Fiesca; Obicione, eletta Lucca a sua stanza, fu stipite della famiglia degli Obizi. Di questo Obicione poco narrano le storie; pare che molto operasse a vantaggio della sede apostolica e dell’imperatore, devoto allora al pontefice, e che presa a moglie Alda de’ Malaspini, signori di Lunigiana, gittasse le basi di quella potenza cui giunsero più tardi i suoi discendenti. Intanto l’Europa commossa da impeto religioso si travasava sull’Asia; frequenti i passaggi per Terra Santa; qualche volta gloriosi, sempre infelici. Nella storia delle Crociate troviamo più volte il nome degli Obizi.

(1172) Correva l’anno 1172, e Saladino, conquistatore dell’Egitto, vincitore de’ Persi, del quale si ragionano tanti gran fatti, traendo profitto dalla debolezza e dalle intestine discordie dei cristiani, dopo aver tolto ad essi quasi tutta la Soria, si dispose a ricuperare la città di Tiro e la strinse d’assedio. Difendevala Corrado marchese di Monferrato e con lui molti illustri cavalieri, fra quali un Obizo degli Obizi, secondo di questo nome. Era nel campo del Saladino un cotale appellato Zizimo di nazione valacco, di statura come che di gigante, di animo superbo, presto di lingua e di mano. Costui, nuovo Golia, persuaso che nel campo nemico non vi fosse chi osasse provarsi seco sfidava ogni dì gli avversarii con detti villani. Nessuno si sentiva in animo di affrontare il cimento, e le millanterie del zigante addoppiavano; ma l’Obizo, stanco della diuturna arroganza, accetta la disfida, esce dalle mura dell’assediata città,viene a paragone coll’animale valacco e al primo colpo di lancia il trapassa. Questo tipo del millantatore superbo vinto dal forte modesto, che fu riprodotto sovente nell’epopee, è comune ai tempi eroici di tutte le nazioni. Falso o vero, tipo o realtà, esso rappresenta il principio della forza bruta che cede a quello del diritto e della ragione. Però dell’atto magnanimo poco frutto ne colse l’Obizo, ché in quella guerra, dicono, trovasse la morte e fosse sepolto in Ascalona.

(1189) Qualche anno dopo i Cristiani e i Saraceni, essendo venuti a giornata navale nel mare di Licia, Nino degli Obizi, nipote al difensore di Tiro, il quale capitanava sei galee di Lucchesi e molte della Chiesa, pugnò con tanto valore contro le innumeri navi del Saladino che molte mandatene a picco ne prese due e se le trasse dietro fino a Tolemaide dove fe’ prigioni tutte le genti. Ma le guerre di Oriente non dovevano tornare fortunate a questa famiglia. Quella terra che pareva aprirsi ad inghiottire interi eserciti di cristiani e che sovente biancheggiò delle loro ossa volle una nuova vittima e l’ebbe.

(1233) Anche Nicolò degli Obizi, figlio di Nino, mandato con truppe del pontefice Gregorio IX in soccorso de’ crociati non appena giunse in Levante e si unì al grosso dell’esercito che, rotto questo e disperso, egli combattendo disperatamente trovò morte onorata. Altro figliuolo di Nino fu Luigi, braccio e mente della parte guelfa. L’ardore delle crociate erasi spento nel sangue e nelle discordie cristiane. Le lotte terribili delle due podestà avevano diviso gli animi, turbate le coscienza, confusi i diritti, sparso una mala peste nell’italiana nazione. Gli odii fra i pontefici e la Sveva famiglia non era modo che si aquetassero; brevi tregue, sommissioni bugiarde interrompevano solo la lunga vendetta che restò sazia sul patibolo di Corradino.

(1244) In questo frattempo avvenne che l’imperatore Federico II, tornata vana ogni proposta d’accomodamento con papa Innocenzo IV, lo assediasse in Sutri dove prima era venuto con lui inutilmente a colloquio. L’accorto pontefice intento a studiare i modi di sottrarsi alle potenti mani nemiche, siccome quegli che Genovese era e di casa Fieschi, tenne mezzo co’ suoi concittadini e col consanguineo Luigi degli Obizi, acciocché accorressero in suo soccorso. Diffatti Luigi venuto a Sutri con buon numero di cavalli levò il papa, il tradusse salvo a Cività vecchia di dove passò a Genova, indi a Marsiglia. E fu in Francia che l’iroso pontefice convocato concilio vi citò il monarca che non comparve, e contumace lo colpì di nuovo anatema privandolo dell’impero.

(1250) Per i quali meriti fu questo Luigi, dal pontefice, riparato allora in Avignone, creato a suo vicario e capitano in Italia, dove adoperandosi quanto poté a danni dell’imperatore giunse a introdurre in Firenze la parte guelfa cacciandone la ghibellina. Né altrimenti che coll’aiuto de’ guelfi poterono gli Obizi primeggiare in Lucca. Vogliono alcuni che questa famiglia vi avesse un vero dominio; ma una tale asserzione è smentita dal fatto che, quantunque come principali fra guelfi godessero in Lucca, città guelfa, di moltissima autorità, il Comune non li riconobbe mai ad assoluti signori, né lasciò del tutto le forme republicane. Fra quelli che esercitarono molto potere primi furono Tommaso, figliuolo di Luigi, ed un cugino suo Anfione, i quali, come asserisce il Brunozzi negli annali di Lucca, chiamati dal popolo stanco dei vicarii imperiali e delle intestine discordie, assunsero il comando della città, vi crearono magistrati nuovi, mutarono gli ordini, riformarono gli statuti. Altri vogliono che i due cugini trovatisi coi guelfi di Firenze alla rotta toccata da essi sull’Arbia, raccogliessero le disperse soldatesche, e, benché avversati dai Malaspini, si volgessero a Lucca la quale, come guelfa, li accolse e affidò loro la somma della publica cosa.

(1260) Fatto stà che l’anno 1260 entrarono Lucca e la tennero, ed anzi i ghibellini ricorsi a re Manfredi, ed ottenutone numeroso esercito comandato dal conte Guido Novello tentarono invano di riaverla, ché Tommaso ed Anfione difendendola gagliardamente obbligarono il Novello a levare l’assedio.

(1265) Questo Tommaso morì poco stante in Lucca e dal grato Comune gli fu eretta una statua equestre di bronzo; Anfione, mandato dal pontefice Urbano IV a Londra ad aiutarvi re Giovanni suo tributario, cui i sudditi niegavano obbedienza, morì in Inghilterra. Erede delle facoltà loro e della potenza fu Bonifazio figlio di Tommaso. Che cosa operasse s’ignora; solo è detto che capitano delle genti di Toscana mandate in aiuto di Carlo d’Angiò si trovasse alla battaglia di Tagliacozzo, combattuta fra lo stesso Carlo e l’infelice Corradino di Svevia, e vi restasse morto sul campo.

(1268) Fortunato se colla morte poté sfuggire all’onta di avere, egli italiano, giovata la causa dell’usurpatore insolente e straniero. Però gli Obizi e la parte guelfa non teneano così fermamente il freno di Lucca che alcuna volta non fosse per isfuggire dalle loro mani. Ai ghibellini fuorusciti il pane dell’esilio sapea troppo di sale, e con segrete mene tentavano accelerare il dì del ritorno.

(1300) Onde avvenne che l’anno 1300, essendo fra principali di Lucca Obizo degli Obizi, due de’ Ciapparoni e un Bonuccio Antelminelli tutti della parte avversa macchinassero a’ suoi danni, e con tanfa prudenza e mistero condussero le cose che l’Obizo, lasciatosi côrre alla sprovveduta, fu da essi assalito ed ucciso. Ma il versato sangue non profittò agli uccisori, essendoché levatasi a romore la città all’aspetto del sanguinante cadavere, i guelfi, mossi alle case dei congiurati, le rasero da fondamenti e quanti poterono avere di costoro ammazzarono, dannando i fuggiti all’esilio. Fuvvi tra gli ultimi Geri Antelminelli, padre di Castruccio il quale colla moglie Puccia e il figliuoletto partitosi dalla patria si ridusse in Ancona. Giunti colà, fossero i disagi del viaggio, l’onta della durata sconfitta, il dolore della patria perduta, i due genitori morirono. L’orfano Castruccio crebbe nella terra dell’esiglio covando l’odio agli Obizi e maturando il pensiero della tarda vendetta.

(1314) Colla uccisione dell’Obizo anziché indebolirsi s’accrebbe, per la suscitata reazione, l’autorità di quella famiglia. Infatti nel 1314 la republica era in piena balia de’ guelfi e del loro capo Lucio o Luti degli Obizi. Sennonché Castruccio era cresciuto, e profugo per Inghilterra e per Francia si andava esercitando nel mestiere dell’armi e si aveva anche aquistato gran nome. Uguccione della Fagiuola, signore di Pisa e Pistoia aspirava allora a insignorirsi di Lucca; gli parve di non poter meglio raggiungere il proprio intento che col favorire il fuoruscito Castruccio. Il quale, venuto da qualche tempo in Italia, e ribandito cogli altri esuli ghibellini per patto espresso della pace stretta fra Lucca e Pisa non appena fu in patria che se l’intese con Uguccione, e mentre costui s’avvicinava con numerosa oste alle mura della città, egli co’ suoi ghibellini fatto un subito subbuglio diede addosso ai guelfi e s’impadronì delle porte che perse al nemico, cacciandone Luti e l’odiata famiglia. Da quel momento gli Obizi non ebbero ferma stanza in quella città e seppero anch’essi che cosa fosse il dolore dell’esiglio. Bensì non poterono dimenticarsi di Lucca, e alcuna fiata vi tornarono, ma per farvi breve dimora. Qualche anno più tardi troviamo infatti che v’era in Lucca un Giovanni degli Obizi, il quale dalla sospettosa republica mandato a confine, non potendo sopportare l’esiglio, vi entrò colle armi e ne ricacciato. Ma tanto era forte in costui l’amore della patria che vi ritornò e, sempre infelice, fu preso e fatto prigione, e dovette pagare diecimila scudi a riscatto. Né potendo quietare pur di non essere lontano dall’amata città si gittò nel castello dì Moriano, dalle cui torri potea vagheggiarla e dalla vista di lei trarre alimento alle meste speranze. Allora i Lucchesi, ristucchi della incomoda nostalgia uscirono in bell’ordine, si posero a campo sotto il castello, il presero e lo spianarono. E fa di mestieri che la amassero di vero amore se una volta per liberarla dalla insopportabile dominazione pisana, due Obizi, benché banditi, unitamente a un Nicolao Diversi, pagarono del proprio all’imperatore Carlo IV la enorme somma di cencinquantamila fiorini d’oro.

Tolta agli Obizí, per il mutato reggimento, ogni influenza nelle cose di Lucca, e spesso lontani da quella, come era costume de’ tempi, per non invilire in turpe ozio prestarono a coloro cui erano congiunti per sangue o per fede politica l’opera del loro braccio e il consiglio. Primo Alamanno, uno della fuoruscita famiglia, accettò il comando delle genti Fiorentine, le quali rotte sotto Montecatini avevano abbandonato quel castello (1315) a Castruccio e ad Uguccione della Fagiuola, continuando per qualche tempo a combattere infelicemente le armi del primo. E il prode generale tanto fece che ritolse quel castello ai nemici (1330). Dopo quell’atto passò al servizio del Marchese d’Este e per lui propugnò gagliardamente Parma stretta dalle armi congiunte dei Signori di Mantova, di Milano e di Verona (1344).

(1368) Ma l’eroe della famiglia fu Tommaso, figliuolo di Pippo. Condottiere perito e nominato da papa Urbano V a generale delle sue armi combatté nel piano d’Arezzo contro il formidabile Giovanni Hakgwood, che postosi al soldo del Visconti dava il guasto al paese e, quantunque con ischiere inferiori di numero, non solo lo vinse e gli dissipò tutte le genti, ma lo fece prigione. Sennonché il pontefice, cui stava a cuore di togliere quel terribile condottiero al Visconti per condurlo a’ suoi stipendii, lo liberò e gli diede il comando delle sue truppe. Per la quale ingratitudine sdegnato l’Obizo lasciò l’Italia e passò in Inghilterra e là preceduto dalla fama delle sue gesta, fu cortesemente accolto da re Edoardo III che giovossi dell’opera sua nella guerra intrapresa allora contro il re di Scozia Davidde (1369). E n’ebbe a ricompensa l’essere insignito dell’ordine della giarrettiera di cui quel monarca fu istitutore (1371). Ma l’affetto della patria ricondusse ben presto l’Obizo in Italia, dove, dopo avere pugnato invano a prò della cadente signoria degli Scaligeri, fermò stanza presso i marchesi d’Este (1386) in Ferrara, nominato dal moribondo Marchese Alberto a tutore del giovanetto Niccolò cui colla sua morte perveniva lo stato (1393).

(1410) Dopo Tommaso Obizo mancato a’ vivi intorno il 1410 la famiglia, come albero vecchio e battuto dalle tempeste, non diede più gli uomini segnalatì che si veggiono per lo innanzi: egli ne chiuse degnamente la serie gloriosa. Le mutate condizioni dei tempi, la progrediente civiltà, l’amore rinato dei buoni studii tolsero questa famiglia alla polvere dei campi, alla sanguinosa gloria dell’armi, per procacciarle più mite, ma non meno durevole rinomanza, nella protezione munifica concessa alle arti e alle lettere e nell’uso generoso delle grandi ricchezze.

(1654) A rompere la quieta e uniforme esistenza sorvenne solo la violenta morte di Lugrezia moglie a un Pio Enea la quale, se il sangue suo avesse fruttato libertà alla patria, non sarebbe meno grande e meno celebre dell’antica.

Antonio BERTI

seguono:

Palagio
Museo
Armeria
Parco

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

Torna su

 

  

Lucrezia degli Obizzi

Monumento a Lucrezia nella Sala della Ragione a Padova