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1846, di Antonio BERTI

IL CATAJO

II

IL PALAGIO

Narrano che verso la metà del secolo sesto decimo una signora Beatrice degli Obizi, innamorata del sito ameno, fabricasse sull’ultima punta del colle, che allora quasi toccava il canale, un’elegante casuccia piuttosto per comodità sua che per pompa nessuna. Questa signora Beatrice era bella, savia e discreta donna e, per quanto asserisce il sig. Sperone Speroni, i monti, beati di possederla, si spaccavano per aprirle il passo, e le aque del Bacchiglione, contro le leggi della natura, volgevano il corso alla propria sorgente. Non è dunque a maravigliare se la casuccia della donna operatrice di tanti prodigi, era destinata a diventare lo stupendo palagio che oggi ammiriamo. Infatti il figliuolo di lei, Pio Enea, trovatosi un giorno colà a diporto con alcuni suoi amici, e saliti tutti sulla rupe che ultima del colle soprastava la casa, allettati dalla incantevole vista dissero, che sarebbe ottimo intendimento il fabricare su quell’eminenza una torricciuola con tre o quattro camerette di dove dominare tutto il paese. Pio Enea non fu sordo, e la torricciuola e le camerette furono tali che ne uscì invece una splendida villa.

Non è a dire quanto fosse il lavoro: si dovette spianare il pendio, tagliare la rupe, scavare nel sasso anditi e scale, indi sul conquistato terreno murare la vasta fabrica, opera più di principe che di privato. L’architettura solida e svelta, semplice, eppure grandiosa, deviando dalle norme comuni, conseguì una originalità che di rado è dato vedere. Allargata nella base, più ristretta in quella parte che poggia sul monte, abbellita di graziose torricelle, incoronata di merli leggeri, ella ha un non so che di aereo e di prestigioso che, come dice egregiamente il Cittadella, ti ricorda gli edifizii descritti nei poemi cavallereschi. Lo scalpello corrotto del secolo scorso ne guastò un po’ l’interno, e specialmente lo scalone che mette sulla gran loggia, cacciandovi i suoi tritoni convulsi, i suoi goffi elefanti, i suoi amori paffuti e i suoi ghiribizzosi cartocci. Ma nella bellezza dell’insieme spariscono i guasti posteriori. Quel magnifico arco che serve ad ingresso, quell’ampia via che corre fra il giardino e il palagio, il lungo ordine delle fabbriche, i molti cortili, le ampie stalle, le aperte logge, l’interna sapiente distribuzione delle sale e delle stanze vi additan l’opera di una mano perita e di un animo coraggioso.

Il palagio, diviso in due piani, mostra nell’interno le dipinture lodate, e non sempre lodevoli del cav. Zelotti. Sono dipinti storici, simbolici e mitologici, disposti i due primi sui muri del piano principale, gli ultimi su quelli del superiore. Chi stà allegro alla parte materiale dell’arte, alla vivacità del colorito, alla sua intonazione, ai contrasti studiati del chiaroscuro, a qualche testa ben disegnata, trova qua e là di che ammirarvi; non forse chi cerca la sobrietà della composizione, l’espressione delle figure, la scienza prospettica, la verità degli atteggiamenti, quella forza insomma che nella morta materia infonde la vita.

Dicono che la rappresentazione del brutto e dello schifoso sia indizio di arte corrotta. lo non so allora che cosa si debba pensare dell’arte del cinquecento così innamorata dei simboli, e pronta a dipingere le più nauseose cose sotto il velo di quelli. Nel soffitto della sala lo Zelotti doveva rappresentare la Discordia e l’Avarizia. Il pittore, per tema che non le si riconoscessero di prima giunta, affastellò in quelle due figure tutte le più strambe allegorie che siano cadute in mente ai poeti. Ed eccovi la Discordia che ha crini di serpi annodati e raccolti sotto benda sanguinosa, faccia di vecchia crespa e rugosa, labbra livide e smorte, occhi stravolti, cisposi e pieni di lagrime, gambe e piedi torti e sottili, petto trapassato da coltello e mani armate di due acutissimi ferri. Ha un mantice sotto i piedi, una tenebrosa caligine intorno al corpo, attraverso la quale si veggono le vesti varie, scomposte, d’ogni più strano e discorde colore.

Né l’Avarizia è da meno. Figuratevi un mostro con lunghissimo collo e con faccia ingorda e famelica, che tiene un piede sopra una schifosa botta ed ha in mano un vaso vitreo contenente un cuore in mezzo ad auree monete. Forse questo bastava e soprabastava a simboleggiare l’Avarizia, ma così non parve al pittore, il quale a lato del mostro pose un altro mostro con viso di donzella, col collo di gru, col petto e l’ali di pipistrello, coi piedi di griffo e con la coda di serpe a significare, dicono gl’interpreti, la continua e mostruosa fame dell’oro. Coteste saranno bellissime cose cui piacciono, ma io dico che la faccia dell’uomo è il più fedele specchio dell’anima, che nelle sue rughe e ne’ suoi mobilissimi muscoli havvi potenza ad esprimere ogni più grande e ogni più sozza passione, e che si può dipingere un accattabrighe e un avaro senza uopo di mantici, di rospi e d’arpie. I dipinti storici occupano quaranta compartimenti, e ricordano per ordine cronologico le gesta di quegli Obizi che più si segnalarono sui campi delle battaglie o nei privati consigli dei principi. Voi vi aggirate in mezzo ad uomini illustri, a tempi tristi e gloriosi; vi passano dinanzi, come in magico panorama, le schiere crocesignate, l’agone dove scesero a lotta l’ oriente e l’occidente, una forte libertà nata inaspettatamente dal lungo servaggio, il despotismo surto dalla corruzione e dalla discordia, le lotte accanite dell’elemento germanico e meridionale, atti meravigliosa di patria virtù accompagnati a infami delitti, vittime generose e codardi sagrificatori, signorie dilatate colla usurpazione e coll’assassinio. I fatti raccolti con diligenza dalle molte opere che ne ragioniamo formano qui una storia completa, adulatrice alcuna volta, non però tanto da tradire in isconcio modo la verità. Nelle stanze superiori le pitture sono quasi tutte mitologiche, ma non mancano le allegoriche e gli stemmi e le vedute prospettiche di isole e di città che è un vero affastellamento. Esiste pure una ricca collezione di strumenti musicali che contiene qualche liuto finemente intarsiato, e una serie di ritratti dei più illustri uomini dei secoli decimoquarto, decimoquinto e decimosesto guastata un po’ dalla presenza di Giangastone dei Medici e del penultimo Obizi, che in mezzo a quelle faccie improntate di severa maestà sorbecchia beatamente una tazza di cioccolatte. Esempio misero d’una stirpe degenerata.

Il marchese Tommaso, morto senza figliuoli nel 1803, legò per testamento questa villa alla regnante casa di Este, la quale, conservandola e ampliandola, le accrebbe comodi e lustro. Fra le giunte fattevi, la più importante si è la cappella. Fedele allo stile archi-acuto in ogni sua parte, e fino ne’ più minuti accessorii, essa ti offre un modello perfetto di quella architettura gotico-tedesca che innalzava le cattedrali del medio evo. Quegli archetti eleganti, quelle svelte colonnine, le pareti tinte d’un mite azzurro, la quieta luce diffusa, le finestrelle vagamente colorate e storiate ti destano nell’animo un piacevole sentimento di ammirazione. Anche le molte pitture che compongono il tritico dell’altare, e fregiano le pareti della chiesetta e l’ancona sovrapposta, si addicono egregiamente all’architettura prescelta: sono tutte opere del quattrocento, ricche di religiosi affetti e alcune di sommi bellezza.

Pochi mesi sono quella villa possedeva ancora un singolare ornamento: il vecchio schiavone Giuseppe Reiss che, passato ai servigi degli Obizi nel 1789, era sopravvissuto per quarantadue anni alla estinta famiglia. Invecchiato sotto i nuovi padroni, straniero a tutti i mutamenti sociali avvenuti in quest’ultimo secolo, tranquillo in mezzo alla nuova generazione di cui non comprendeva l’agitata esistenza, continuava a farsi guida ai visitatori, li accompagnava fin sulla soglia delle sale dipinte, dell’armeria, del museo, e mentre s’aggiravano ad ammirare o studiare il passato egli, seduto sul rudero d’una colonna o sopra una arrugginita armatura, stava aspettando raccolto in una taciturna meditazione. Quest’uomo, d’una antica semplicità, curvo dagli anni, colla sua immobile fisionomia, coi bianchi mustacchi, rassomigliava quegli sfasciati monumenti che in mezzo agli edifizii moderni ci ricordano altri tempi ed altre nazioni.

Antonio BERTI

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

Dopo la guerra 1915-18, il Catajo fu sequestrato dal Demanio a rifusione dei danni recati dal nemico; ora appartiene alle sorelle Dalla Francesca. Se putroppo l'armeria, la raccolta di strumenti, il museo, più non vi esistono, portati in Austria nel 1866 e nel 1896, vi si può ancora ammirare, oltre gli affreschi menzionati dello Zelotti, il giardino all'inglese con la peschiera che risale al periodo ducale, mentre il giardino all'italiana degli Obizzi è sparito. Nell'oratorio, decorato internamente su disegno dell'arciduca Massimiliano di Modena in quel gotico di interpretazione romantica che imperversò verso la metà del sec. XIX, si conserva una tavoletta appesa al soffitto con un S. Michele Arcangelo del Guariento, strappato alla “Celeste Milizia” che ornava la cappella dei Carrara in Padova.

Da: Callegari, Adolfo: Guida dei Colli Euganei (1931, 1963, 1973)

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