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1846, di Antonio BERTI

IL CATAJO

IV

L’ARMERIA

Dalle reliquie di un mondo che più non ci appartiene passiamo a quelle degli avi nostri: diamo un addio alle antiche civiltà che sparirono per salutare i forti uomini onde derivano le moderne nazioni. Il medio evo ci comparisce dinanzi irto di lancie, vestito di ferree corazze, coperto di elmi e di scudi, montato su focosi destrieri, agitato perennemente da intensi odii e da amori, avventuriero devoto alla donna, confidente in Dio e nella spada. Alla vista di quelle armi l’imaginazione spazia per quei poetici tempi, ricostruisce i mille castelli sorgenti in vetta alle più accuminate colline; accocollati, come i camosci, sui fianchi di rupi inaccesse; posti, come le scolte, a cavaliere delle vie e dei torrenti, e li cinge di larghe fosse e li corona di merli e di torri, e le par d’ascoltare il suono amoroso del liuto o lo scalpito d’un destriero, e avvisa una leggiadra donna che passa attraverso gli acuti veroni, o si figura un tumulto guerresco di macchine che battono le mura, di cavalieri che ne tentano l’assalto, e di pietre e di freccie che volano dalle feritoie e cadono da ballatoi sugli audaci assedianti.

Quante di quelle armi arrugginite o appese a oziosa mostra sulle pareti non avranno gittato scintille nel percuotere le nemiche armature! Quante volte non le avrà intrise il sangue, anche italiano! Certo se sempre si fossero rivolte contro petti stranieri avremmo meno delitti da scontare e meno dolori da sopportare. Noi oggi le riguardiamo con fredda curiosità; maravigliamo che uomini simili a noi potessero indossare quelle gravi armature e aver liberi e gagliardi i movimenti della persona: non sappiamo noi pigmei, come si potessero maneggiare que’ lunghi e pesanti spadoni. Ma le nazioni escono, come l’antica Minerva, armate dal seno dei secoli; le prime lor glorie sono la guerra ; la prima legge la forza. Chiamate a distruggere o a edificare impugnano la spada e imbracciano lo scudo, cantano il valore e la morte, e ai forti detti rispondono il braccio ed il cuore; indi, quetato quel moto primo, si riposano per diventare sapienti.

Il medio evo fu la nostra giovinezza, età tutta guerresca; guerreschi i canti e le gesta; guerresche le feste e gli amori. Ad esso dobbiamo una varietà meravigliosa di armi; erede di tutte le antiche le trovò poche a’ suoi impeti di valore, e le moltiplicò modificandole ne’ modi più ingegnosi e spesso bizzarri. Aveva la clava e ne trasse la famiglia infinita delle mazze ferrate, imperciocché il legno che bastava a spezzare le antiche pelte e le targhe tornava vano contro gli elmi e i brocchieri; dalla picca fe’ uscire le lancie; dal giavelotto le moltissime chiaverine, dalla scure tutte le azze, dalla spada le striscie, i costolieri, i brandi, i pistolesi, le draghignasse. Poi in quel perpetuo rimescolamento di popoli, in quelle irruzioni di orde barbariche che percorrevano per ogni verso la terra, ciascuna nazione aggiungeva al tesoro comune la sua arma speciale. I Longobardi vi portarono l’ascia, i Franchi la corsesca, i Sassoni il Saxen da cui ebbero il nome, gli Arabi e i Turchi le sciabole e le scimitarre, gli Albanesi la zagaglia, gli Scozzesi il claymore, gli Svizzeri l’alabarda e la partigiana.

Nel medio evo le specie delle armi offensive ammontarono a quasi trecento, variate dalla ricca fantasia degli artefici o dei committenti. E colle armi offensive crebbero le difensive; imperciocché alla violenza del colpo doveva corrispondere la forza del riparo. Quindi più gravi e solide le armature del capo, del petto e del braccio; sbandito il legno, il cuoio ed il rame di cui facevano grande uso gli antichi per sostituire il ferro o l’acciaro di finissima tempera. Il caschetto diventò elmo, celata, borgignotta, cappellina, morione, zucchetto, bacinetto, barbuta a seconda che era destinato ai cavalieri o ai fanti, ai baroni o ai servi, che adoperavasi alle giostre o alla guerra. Né bastò che il capo fosse coperto, ma vi si aggiunse la visiera a riparo degli occhi, e la barbozza del mento, e i guanciali delle guancie, e l’orecchiona delle orecchie, e la goletta del collo. Così la lorica e la catafratta, antiche armature del.petto tessute a ferree scaglie od a maglie, si mutarono nelle corazze, negli usberghi per i cavalieri, nei corsaletti e nelle brigantine, per i fanti, le quali, specialmente le corazze, fabricate in fino acciaio non era parte del corpo che non coprissero o difendessero. Lo stesso dicasi degli scudi.

L’uomo così racchiuso in una completa armatura, quasi in fortezza mobile , e montato sopra il cavallo bardato anch’esso di ferro, correva e depredava le terre, combatteva securo contro i fanti ch’erano i servi, operava atti incredibili di valore, e nel nome di una donna, o colla croce segnata sul petto, partiva soletto a difendere la virtù e la bellezza perseguitate, o a conquistare Terra Santa. Le ferree armature, più che le turrite castella e la baronal vita solitaria e superba, mantennero il feudalismo e ritardarono il civile progredimento delle nazioni. Ci voleva la terribile invenzione del frate tedesco per metter senno agli Orlandi innamorati o furiosi. Quando il servo armato dell’archibugio ebbe più valore del cavaliere e della sua mazza ferrala, e la fischiante palla giunta sulla corazza non la lambiva umilmente, come la freccia o la lancia, ma la pestava e la sforacchiava, il medio evo fini; sparirono le castella, le giostre, i cavalieri erranti, le corti d’amore ; e le armi, inutile arnese appeso alle pareti o cacciato nelle soffitte, restarono preda alla ruggine, quando vanto e quando rimprovero alle nuove generazioni.

Più tardi, a lustro delle città o dei magnatizii palagi vennero tolte all’oblio in cui giacevano, e disposte in bell’ordine intorno alle sale. Di queste armerie, di cui non è povera l’Italia nostra, una è codesta raccolta dallo stesso marchese Tommaso che creava il Museo. Non è delle ricche, specialmente in fatto d’armi offensive, ma conta di belle e complete armature. Nelle quali specialmente gli armaiuoli sfoggiavano tutte le squisitezze e gli accorgimenti di un’arte finita. Connesse con diligenza ingegnosa, arabescate ne’ più leggiadri modi havvene alcune in questa raccolta che t’imitano l’eleganza e la pieghevolezza delle seriche vesti, e sono degne dei tempi che videro i miracoli del Cellini. Fra le armi offensive sovrabbondano le alabarde, le partigiane, le chiaverine, i coltelli da breccia, le mazze ferrate, ma difettano o mancano le specie più rare. Poi l’armeria del Catajo ha un difetto comune con altre molte, che le armi ivi ammassate furono disposte a legge di euritmia non secondo le epoche storiche. Se ne adornarono le pareti a trofei, a piramidi, a ruote, a ventagli, ma si confusero in uno le armi d’asta, quelle da taglio, quelle da fuoco, le turche, le svizzere e le italiane, per cui chi le visita ammira ma non apprende.

Né potevano mancare le armi da fuoco dove uno de’ signori del luogo ne inventava una importante, l’Obice, e vi poneva il suo nome. E infatti vi trovi archibugi a forcella, moschetti a ruota, cannoni di cuoio, due bellissime colubrine e qualche fucile di fine lavoro. Fra questi te ne additano uno ricco d’oro e d’avorio, che appartenne al turpe Cosimo III. In mezzo a quelle rozze e arrugginite armi, che avranno le tante volte combattuto a pro’ delle italiane repubbliche e contro i superbi stranieri, quell’elegante strumento di servitù è una triste memoria.

Antonio BERTI

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Obizi
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Parco

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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