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1846, di Antonio BERTI

IL CATAJO

V

IL PARCO

Dall’ultimo angolo del palazzo che riesce sul fiume staccasi un muro, il quale percorrendo le radici del colle per circa quattrocento passi tira d’un tratto verso il monte, vi poggia, ne traversa l’umile cima e continua il cammino dall’altro lato finché mette capo di nuovo al palazzo. Questo muro, che gira per lo spazio di circa un miglio chiude entro sé le limpide aque di un povero fiumicello appellato Rialto e buona parte del dorso selvoso del colle. I signori del luogo lo elevarono all’altezza di ben otto piedi per formare un parco che popolato di belve, abbellito da ricca vegetazione, confortato da fresche ombre e da aque correnti, si prestasse ai campestri diletti del passeggio e della caccia. E infatti l’amenità naturale del sito accresciuta da un’arte sapiente imitarice del vero rende incantevole quell’ampio recinto. Ad ogni passo che vai mutando sul colle ti si affacciano nuovi oggetti, e vedi grotte scavate nel sasso e annose piante e giovani arbuscelli e aperti pianerotti e fitti macchioni e sparsi cespugli e nude rupi e fondi burroni.

Le lepri, i daini, i camosci che popolano que’ recessi non selvaggiamente paurosi ti saltellano intorno, ti compariscono a torme, si separano alla spicciolata, calano al fiume,si celano nelle grotte, pascolano le molli erbe dei pratelli e spandono dovunque il movimento e la vita. Alcuna volta la quieta loro esistenza è rotta dallo squillare del corno, dall’abbaiare delle mute veloci, dalla concitata voce del cacciatore e accerchiati d’insidie, dopo aver inutilmene cercato rifugio nella folta boscaglia o nei tenebrosi antri, cadono sotto il dente dei veltri o percossa dal fulmine dei fucili. Ma non è tanto la caccia quanto i rigori del verno che portino danno a quegli animali. Tolti alle alpi native, racchiusi in breve spazio, privi di que’ vantaggi che nella vita selvaggia e libera le belve sanno per istinto procacciarsi non resistono alle alte nevi, ai ghiacci ostinati, e per mancanza di ricovero od alimento spesso muoiono a centinaia, e numerosi e pasciuti nella stagione autunnale ricompariscono radi e sparuti in quella di primavera. Povere bestiuole destinate ad alleviare le noie dei ricchi non possono in alcun modo sfuggire l’ineviabile fato.

Alla bellezza del luogo è qui congiunta quella dei vicini colli e della sottoposta pianura. Imperciocché, posto a cavaliere della via che da Padova mette alla vicina Monselice, ha il Bacchiglione che ne lambe le mura, il paesello della Battaglia che gli si stende ai piedi, gli Euganei che a mezzogiorno e a ponente gli fanno maestosa corona, l’isolato e turrito Monselice che gli sta di rimpetto, e la vista del fumante colle di Sant’Elena e la vasta pianura gremita di alberi e seminata di case e sul lontano orizzonte Padova e il mare. Aggiungeteci l’aria tepida e balsamica, l’aspetto ubertoso del circostante terreno, il mite sorriso del cielo e darete al Catajo la preferenza sopra altre splendide ville o dardeggiate dai cocenti raggi di un sole troppo meridionale, o perdute in una squallida e uniforme campagna, o avvolte nella eterna nebbia delle nordiche terre.

Antonio BERTI

precedono:

Obizi
Palagio
Museo
Armeria

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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