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1846, di Antonio BERTI

IL CATAJO

III

IL MUSEO

[Chi volesse diffuse e sapienti notizie sul Museo del Catajo consulti l’indicazione antiquaria del Cavedoni stampata a Modena nel 1842, opera scritta con erudizione modesta e sicura. Obligato a scrivere per una Strenna io dovetti battere altra via].

Entriamo il regno dei trapassati. Ecco disposti in bell’ordine attorno le lunghe pareti e nel mezzo alla sala i tesori dell’antichità che ci ha conservati, fida e temuta custode, la morte. Questa preziosa raccolta è dovuta alle instancabili cure e alle archeologiche cognizioni del marchese Tommaso, ultimo della estinta famiglia. Pare che quest’uomo, il quale in non tarda età doveva discendere nel sepolcro e e chiudervi con sé il nome glorioso, quasi presago che l’avvenire gli sarebbe venuto meno, siasi rivolto con mesta venerazione al passato. Né guardò a spesa e a fatica; comandò che si scavasse nell’agro Estense e ne trasse copia di urne, di vasi, di euganee iscrizioni; comperò anticaglie egizie, etrusche, dalmate, greche, romane; e se molte, come suol avvenire o per dotta malizia di chi vende o per buona fede di chi compera, non meritavano l’onore del museo, alcune sono pregevolissime e rarissime e offersero soggetto di illustrazione e di commento a parecchi rinomati archeologi. Collocate in ricchi armadii, disposte sovra eleganti colonnine o su appositi basamenti, divise in ventiquattro compartimenti, che ai due opposti lati si fanno studiato riscontro, riempiono fittamente la vasta sala, sulle cui pareti la barocca eleganza del secolo scorso sfoggiò la pompa de’ suoi ghirigori. L’arte moderna le veste, ma esse sono come uscirono dalle viscere della terra o dalla notte delle tombe riempiute d’ossa bruciate, corrose dalla ruggine, infrante dalla marra, coperte dalla polvere veneranda dei secoli.

A molti quelle reliquie salvate dall’universale naufragio son mute: voci d’una lingua sconosciuta, eco d’una parola che sì perdette attraverso lo spazio non giungono alle loro orecchie o vi muoiono non comprese, per cui non ci badano più che tanto e passano oltre ammirando o deridendo la pazienza di chi le raccolse. Pure, benché straniera alla scienza, la mente trova di che meditare nell’osservarle, e benché freddi e muti que’ marmi destano nell’animo commozioni gagliarde. Essi sono l’unico anello che ci congiunge al passato, i frammenti di un mondo che ha cessato di esistere. Se non fossero opera della mano dell’uomo e non avessero servito a manifestare le sue gioie e i suoi dolori, potrebbero non essere che arida scienza; ma chi le scolpì, chi le disegnò ebbe comune con noi il pensiero e l’affetto, fu membro della grande famiglia, che si appella l’umanità, cooperò alla preparazione dell’ignoto avvenire e nell’ordinare che il suo nome fosse inciso sul marmo sperò forse nella nostra ammirazione o nel nostro compianto.

Quanti non avranno sospirato a quell’urne come all’ultimo termine del dolore! Quanti non vi saranno discesi fastiditi della vita, orbati delle più care persone, abbandonati o perseguitati, vittime della fatalità o del delitto, accompagnati da lagrime o da imprecazioni! Di che cure pietose non furono oggetto forse que’ vasi cinerarii che ora giacciono rotti e dimenticati? Che affetti forti o gentili inspirarono alcune di quelle epigrafi, diedero vita e parola a quelle edicole e a que’ sarcofaghi istoriati? Che pensieri tristi e profondi si celano sotto que’ simboli? Chi erano quel Sostrato, quel Dionisio, quella Eugenia, quella Moschina di cui ci parlano codeste iscrizioni? Non illustri per altezza di mente, non famosi per tragrande scelleratezza non rinomati per alte o immeritate sventure passarono confusi nel turbine delle esistenze , non lasciando che poca cenere e un nome: sappiamo che vissero perché morirono, simili alle stelle cadenti di cui avvisiamo la luce quando son per estinguersi.

Fra costoro primi compariscono gli Etruschi, i sacerdoti della italiana mitologia, i custodi dei riti religiosi, il popolo dei miteri e delle tombe. Il museo Obizi vi offre venti urne cinerarie in alabastro o in tufo calcare scavate a Volterra. Tutte hanno forma prescritta, immutabile: sul dinanzi è scolpito in bassorilievo un fatto tolto alla greca mitologia, che allude forse alle circostanze della vita o della morte dell’estinto, sul coperchio una persona recumbente, quasi a mensa, ch’è il defunto; qua e là la colonnina sormontata da una pigna per essi simbolo della morte. Non tutti però stavano contenti alle rappresentazioni della greca mitologia; forse alcuni men dotti sdegnavano giovarsi di simboli stranieri volendo in più evidente modo significare il sentito dolore. Ed eccovi i congedi per l’altra vita che ricorrono frequenti in quell’urne. Le figure scolpite sono allora la famiglia; sul mezzo stanno un uomo e una donna ritti in petto, raccolti in sé che si guardano mestamente e si stringono con affetto la mano. I piedi son volti ad opposte parti, come a dinotare essere quello l’ultimo momento che precede l’eterna separazione. Qualche volta una furia alata posando le mani sui loro omeri li disgiunge; imperciocché il superstile avrà voluto che la violenza avesse segno visibile forse a mostrare che in lui l’affetto era potente come la morte. E non fa meraviglia questa rivelazione improvvisa di pensieri e di affetti che agitarono generazioni perdute nel mar del passato, questa comunione di spiriti attraverso il tempo e lo spazio?

Ai monumenti etruschi si collegano i vasi cinerarii euganei dissotterrati nell’agro estense abitato da un popolo che probabilmente divideva cogli Etruschi circumpadani la religione, i riti sepolcrali e i costumi. La forma loro loro suol essere quella d’ un’olla alta e stretta, di varia altezza, di tinta or rossiccia, or castanea, or nerastra, spesso listati o ricinti nel corpo da costolette a rilievo. Ve ne ha di creta, di rame, e alcuni (simbolo della fragilezza umana) di vetro. Pochi hanno iscrizioni, nessuno figure; racchiudono avanzi di ossa bruciate, monete dell’ epoca cui appartengono, monili e corone e spille e armille e altre ciammengole, adornamenti durevoli d’una beltà passeggera. Parlano più all’intelletto che al cuore.

Nelle stele greche e romane troviamo qualche tratto d’affetto. Il dolore è sovente espresso nell’atteggiamento della persona, in quegli ingegnosi simboli che accennano alla fuggevolezza della nostra esistenza, nella semplicità eloquente di qualche iscrizione. Ora le due figure scolpite sono recumbenti al sepolcrale convivio, ora l’una seduta, l’altra eretta si guardano mestamente, ora una delle due, la donna, siede colla destra abbandonata sovra il ginocchio e colla sinistra in atto di sorreggersi la guancia, mentre l’uomo eretto dinanzi ad essa sembra porgerle un ultimo dono. Le epigrafi vi dicono che Moschina, figlia di Afrodisio, o che Boeto figlio di Sostrato, liberi da cure riposano e vi mandano un vale. Almeno se le iscrizioni non ci riescono gran fatto commoventi non sono nemmeno stoltamente ipocrite o vigliaccamente adulatrici.

Una di codeste edicole rappresenta una donna velata seduta in trono e dinanzi a lei un uomo imberbe eretto e un fanciullino nudo in atteggiamento d’afflitto. Sotto sono le epigrafi greche così disposte:

Dionisio
f. Di Sostrato Ateniese
Libero Da Cure
Vale
Rumata f. Di Menippo Antiochense
Libera Da Cure. Vale

La disposizione delle iscrizioni accenna che nello spazio lasciato vacuo vacuo doveasi a suo tempo incidere l’epitafio del figlio. Chi ci sa dire perché avverso destino fosse negato al fanciullo riposare nella tomba paterna? Migrò ad altri cieli dimentico el suo o cacciato dal paese natale? Morì sovra inospita terra o inghiottito dalle onde avare del pelago? Vide la distruzione passare sulla sua casa o non lasciò nessuno dopo di sé? Non ci è dato il saperlo:quel sasso è la sola memoria che resti; ma in quel sasso stà forse celata una dolorosa tragedia. Ecco un cinerario di forme graziose sculto in pietra dei colli Euganei. Sul dinanzi è scritto:

Damale. Ti. Junii.
Anc. Annor. xx. Hic. Sita. Est.

Chi è questa Damale ancella di Tito Junio cui il padrone volle erigere un un durevole monumento? L’innamorato signore potea dirla la quarta grazia, l’ottava maraviglia del mondo: ma l’affetto vero aborre dalle esagerazioni. A destare compassione bastava sapere che la povera fanciulla era amata e moriva a vent’anni. In altre invece dell’affetto trasparisce il mercato. Un sarcofago rappresenta una caccia: le teste delle due persone principali si veggono appena sbozzate da chi sculse l’urna, affinché altri potesse ritrarvi le sembianze de’ due coniugi che l’aquistassero. L’artefice voleva sparmiare all’eredee la noia di simulare il dolore.

L’arte antica non isfoggia qui le sue ricchezze soltanto nei monumenti sepolcrali; hannovi tabelle votive, are, bronzi, iscrizioni sacre, cippi terminali, stele onorarie, epigrafi ginnastiche, vasi etruschi, deità greche ed egizie, busti imperatorii statue semicolossali, frammenti d’antiche sculture, molti de’ quali, oltre al valore storico ed archeologico, sono importanti dal lato dell’arte. Gli oggetti vi passano sotto lo sguardo varii e commisti; in quel vasto caos stanno confusi i secoli e le nazioni. Qui un frammento del fregio che correva intorno la cella del Partenone vi richiama ai bei tempi di Pericle, e l’imaginazione vostra ricostruisce quello stupendo monumento uscito per miracolo illeso dalla distruzione del medio evo, guasto dalle bombe dei Veneziani; là un busto semicolossale di Minerva vi ricorda le meraviglie dello scalpello di Fidia. Ecco la statua di Sabina, la moglie del sapiente Adriano, bellissima testa greca annestata su busto romano una di quelle forse che i più tardi romani spiccavano per caricarne le baliste e le catapulte e iscaraventarle alla testa dei barbari; un po’ più lunge il busto di Commodo sotto le forme di Ercole l’insensato Augusto che spopolava Roma di uomini e la popolava di statue.

Né l’arte si mostra sempre severa; qualche volta si fa lieta e scherza. Vedete quell’anfora nolana; il pittore vi disegnò una vaga giovinetta fuggente e due giovani che vanno sulle sue peste; su quel cratere di Volterra è dipinta la guerra dei pigmei contro le grù; in quel bassorilievo stanno scolpiti dei putti che si esercitano ne’ giuochi ginnastici; in quest’altro è una baccante in atto di danzare sonando due cembali. Una corona di edera fornita dei suoi corimbi le cinge le bellissime chiome, che per le agitate movenze del ballo le cadono sparse in sulla cervice; volge le spalle allo spettatore e rovescia mollemente la testa all’indietro levando in alto le braccia come in atto di darsi abbandonatamente alla voluttà della danza. Non la potele riguardare senza che vi corra un fremito per le ossa; e ben saggiamente operò chi le pose sul limitare dell’uscita, imperciocché dopo il lungo viaggio per mezzo le tombe nel vederla parvi di ritornare alla vita.

Ma quel sorriso è fugace; è un raggio di sole fra le nugole tempestose; un fiore caduto in mezzo alla neve. Anche usciti continuate a camminare lungo tratto fra le urne cinerarie e i sepolcri; vi torna irrevocato e gigante il pensiero della morte. Il quale pensiero, che domina potente nelle religioni e nei costumi di tutte le antiche nazioni, svela l’errore in cui versa chi ripete di continuo la vita degli antichi essere stata vita esteriore, sensuale, vita di chi fruisce dell’oggi senza pensare al dimani. Pure i riti sepolcrali erano regolati da religiosi precetti; pie credenze e savie leggi provvedevano affinché le salme de’ trapassati potessero riposare in più o men breve fossa; i sepolcri abbellivano i siti più frequentati delle città: l’arte aveva consacrato alla morte un’apposita architettura e inventata una copia maravigliosa di simboli; molte nazioni elevavano labili le dimore, costruivano eterne le tombe. E noi che ne’ nostri cimiteri ricopiamo spesso malamente l’architettura di quegli antichi, quando avremmo potuto giovarci di una più addatta alle nostre religiose credenze, noi che approfittiamo ancora dei loro simboli e scolpiamo su tombe cristiane faci arrovesciate, urne cinerarie, genii piagnolosi o svenuti, noi che paurosi della distruzione abbiamo relegato lunge dagli sguardi le tombe dei padri, noi con questa bella ricchezza d’imaginazione e di affetti ci vantiamo di meditare sul fecondo pensiero della morte.

Antonio BERTI

precedono:
Obizi
Palagio

seguono:
Armeria
Parco

 

Da: Strenna dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo» J. Crescini, G. Stefani – ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica, Atesa Editrice).

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